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Bovini, water footprint ed emissioni di CO2: quale l’impatto reale?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

È necessario eliminare la carne dalla propria alimentazione per salvare il pianeta. Gli allevamenti sono i principali responsabili della produzione di metano e quindi dell’inquinamento ambientale. Nulla come gli allevamenti erode risorse naturali e sottrae spazio alle coltivazioni. Le coltivazioni sono di gran lunga più sostenibile dell’allevamento.

Tutte queste frasi altro non sono che luoghi comuni, radicatisi anno dopo anno nella “cultura generale” e che contribuiscono ad alimentare una serie di fake news dannose per i consumatori.

All’origine dell’equivoco

È il 2006 e la FAO pubblica il rapporto “Livestock’s Long Shadow” che per primo porta alla luce il legame tra allevamenti e cambiamento climatico. L’impatto dello studio è enorme: l’opinione pubblica si allarma, associazioni ambientaliste e comunicatori iniziano a connotare negativamente la produzione e il consumo di carne fino ad arrivare a incolpare i bovini per i problemi ambientali perché, stando alla ricerca della FAO, inciderebbero più dei trasporti sul cambiamento climatico e sarebbero responsabili del 18% delle emissioni mondiali di CO2 equivalente.

Le cifre sono così fuori scala che la comunità scientifica si mobilita, rifà i conti e contesta il report mettendone in discussione gli assunti. Fra gli scienziati più attivi si conta Frank Mitloehner, professore della Università della California UC Davis, che ha contestato il primo rapporto evidenziando come la metodologia applicata nel calcolo degli impatti dell’allevamento fosse diversa rispetto al calcolo delle emissioni dei trasporti. Osservazione accolta anche da Pierre Gerber, uno dei ricercatori che lavorarono al rapporto stesso. L’errore? Per gli animali in allevamento sono state calcolate le emissioni di tutto il ciclo produttivo della carne, il cosiddetto Life Cycle Assessment, con uno specifico modello denominato Global Livestock Environmental Assessment Model (GLEAM). In altre parole, hanno sommato le emissioni a partire dalla coltivazione dei cereali per i mangimi, trasformazione e conservazione della carne e il packaging. Per i trasporti, invece, sono state considerate solo le emissioni dei gas di scarico dei mezzi mentre non sono stati calcolati tutti gli impatti derivanti dall’industria automobilistica, navale e aeroportuale necessari alla costruzione dei mezzi stessi (gomma, acciaio, plastica, vetro, estrazione petrolio, ecc.). Questo ha reso il confronto non omogeneo e sbilanciato e soprattutto poco obiettivo, producendo un dato fuorviante e non veritiero. Dopo 7 anni la FAO rilascia un secondo rapporto che ridimensiona gli impatti di tutta la zootecnia mondiale, fissandoli al 14,5% delle emissioni.

Oggi cosa dicono i dati?

Nel 2013 la FAO ha aggiornato lo studio, rivedendo gli impatti mondiali della filiera zootecnica con la pubblicazione del rapporto “Tackling Climate Change through Livestock”, eliminando il confronto con i mezzi di trasporto, ma tenedo sempre l’uso del suolo e il suo cambiamento (aspetto particolarmente critico quando si parla di emissioni per la difficoltà di eseguire calcoli accurati). Il dato relativo alle emissioni dell’allevamento, come detto, è passato dal 18% al 14,5% (media mondiale di tutte le produzioni zootecniche, bovino, pollo, suino, uova e latte, calcolate con il metodo GLEAM). La restante percentuale, che si attesta attorno all’ 80%, è invece imputabile all’utilizzo dei combustibili fossili quali petrolio, carbone e gas impiegata come energia nei trasporti, nell’industria e nel settore residenziale, mentre un 5% è imputato alla produzione di cemento. Anche basando il confronto solo sulle emissioni dirette il rapporto non cambia: gli animali sono responsabili del 5% delle emissioni, mentre i trasporti del 14%.

Le emissioni non sono tutte uguali

A questo punto però qualcuno potrebbe obiettare che sebbene gli allevamenti inquinino decisamente meno rispetto a quello che i più pensano, tuttavia rimangono parte di un sistema inquinante… giusto? Per rispondere è necessario un rapido ripasso delle nostre conoscenze scientifiche di base. Il metano, considerato il principale gas climalterante degli allevamenti, emesso dai bovini e da altri ruminanti (ma anche i cavalli emettono metano e in quantità ridotta, anche l’uomo) fa parte di un ciclo naturale, cosiddetto biogenico, che è molto diverso dall’anidride carbonica immessa in atmosfera dai mezzi di trasporto o dall’industria. Il ciclo inizia dalla crescita dell’erba e dei foraggi utili per alimentare il bovino. Attraverso la fotosintesi, le piante catturano l’anidride carbonica (CO2) dall’aria, producono carboidrati (CHO) e rilasciano ossigeno (O2) in atmosfera. I carboidrati contenente la parte di carbonio naturalmente presente nella pianta (C) sono poi ingeriti dai bovini e lo stesso carbonio, durante la digestione microbica che avviene nel rumine dell’animale, è trasformato in metano (CH4) poi rilasciato nell’aria dagli animali. A differenza delle emissioni derivate dai combustibili fossili e dalla fabbricazione del cemento che negli anni si sono accumulate in atmosfera e vi permarranno per circa mille anni, il metano prodotto dagli allevamenti è riassorbito in tempi rapidi dalle piante e rientra nel ciclo vitale. Infatti, dopo circa dieci anni, il metano atmosferico (CH4) è scomposto in acqua (H2O) e anidride carbonica (CO2): quest’ultima molecola verrà riassorbita proprio dalle piante, le stesse che diventeranno nutrimento per i bovini, per riattivare il ciclo. In sintesi, il carbonio fossile è un carbonio morto che si accumula in atmosfera, quello del metano emesso dai bovini è un carbonio vivo che rientra nel ciclo della vita e non si accumula.

Elaborazione grafica da “Global Dairy Platform 2020”

A proposito di Water Footprint

Tra le critiche rivolte alle filiere zootecniche c’è quella che vede gli allevamenti come sistemi che erodono le risorse idriche del pianeta poiché per produrre 1 kg di carne sarebbero necessari 15.400 litri di acqua. Anche in questo caso, è necessario fare chiarezza. Per prima cosa, è importante precisare che questo impatto è calcolato sommando la cosiddetta “acqua verde” con l’“acqua blu” e l’“acqua grigia”. L’acqua verde è quella piovana, che consente la crescita della vegetazione che nutre le mandrie, e di cui l’uomo non può servirsi. L’acqua blu, invece, è l’acqua prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, come fiumi e ruscelli. Infine l’acqua grigia rappresenta il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. La stragrande maggioranza dell’acqua imputata alle produzioni animali è quella che piove sui vegetali , la cosiddetta acqua verde, che rappresenta il 94% dell’acqua imputata alle filiere bovine. Tutta quest’acqua non è realmente consumata perché evapotraspira nell’atmosfera e ritorna nel ciclo naturale con le precipitazioni. La percentuale di acqua blu “sottratta” alle riserve destinate all’uomo è quindi minima e rappresenta appena il 3% del totale, così come l’acqua grigia che, nel peggiore dei casi (mancanza di depurazione, uso sconsiderato delle deiezioni, sovraconcimazione, uso eccessivo di fitofarmaci) rappresenta appena il 3%. Pertanto, il modo corretto per calcolare l’impronta idrica è quello di considerare l’acqua verde al netto della evapotraspirazione di una vegetazione naturale, ottenendo così l’”acqua verde netta” e, conseguentemente, la water footprint netta.

Elaborazione grafica da “La Sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia” edito da FrancoAngeli, 2018

Quali sono gli impatti dell’allevamento bovino in Italia?

In Italia l’allevamento bovino ha un impatto per emission di gas climalteranti pari al 3,7% del totale (rielaborazione su dati ISPRA 2021). In Italia, recenti pubblicazioni scientifiche hanno calcolato il Net Waterfootprint (WFPnet) (Atzori et al., 2016) che per produrre 1 kg di carne bovina risulta, nel caso più virtuoso, pari a 790 litri di acqua. Pertanto, possiamo affermare che per produrre 100 g di carne oggi in Italia si consumano solo 79 litri di acqua nell’ipotesi della migliore utilizzazione dell’oro blu.

A cura di
Giuseppe Pulina