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Il bovino, un aiuto contro la desertificazione
Sostenibilità
30/03/2022
3 min.
Sostenibilità

L’allevamento del bovino può fornire un importante contributo nel contrastare i cambiamenti climatici e ridurre l’avanzare dei processi di desertificazione. Un’affermazione che sembra in contrasto con talune convinzioni, che vorrebbero imputare all’allevamento le maggiori responsabilità in tema di impatto ambientale. Non è così, come mostrano molte evidenze scientifiche. Ma andiamo con ordine, iniziando dal prendere in esame il tema della desertificazione.

“Degrado delle terre attribuibile a varie cause, fra le quali le variazioni climatiche e le attività antropiche”. Così è stata definita la desertificazione dall’Onu (Rio 1992, Conferenza su ambiente e sviluppo), chiamata a dare una risposta a un problema che già allora era evidente. E che oggi, complice i cambiamenti climatici, si fa ancora più pressante, interessando il bacino del Mediterraneo e dunque anche l’Italia e in particolare alcune aree, anche estese, di Puglia, Sicilia e Sardegna. Coinvolgendo, inaspettatamente, una larga parte della “fertile” Pianura Padana, tanto che circa il 30% della sua superficie è predisposta al rischio di desertificazione.

Non si tratta solo di un evento congiunturale, attribuibile a periodi di siccità, ma di una trasformazione del terreno, che perdendo le sue normali caratteristiche bio-chimiche-fisiche, riduce la capacità di produrre alimenti.

Osservando come il fenomeno si presenta in Italia, si nota la maggiore criticità riscontrata nelle regioni insulari. C’è chi (Enea, progetto Riade) ha cercato di chiarirne le cause. Il clima e la piovosità hanno a questo proposito un ruolo importante, al quale si aggiunge quello delle attività antropiche.

È a questo punto che entra in ballo l’allevamento dei bovini, la cui presenza si dimostra utile per la fertilità del terreno e per il contrasto alla desertificazione. Prendiamo il caso della Sicilia, la più grande regione italiana in quanto a superficie. Modesto però il suo patrimonio bovino, che si ferma a poco oltre 339mila capi (fonte Anagrafe zootecnica), appena il 6% del totale.

E allora la vulnerabilità della pianura Padana come si giustifica? Anche in questo caso un’occhiata alla distribuzione degli allevamenti torna utile. L’area maggiormente a rischio di desertificazione è quella orientale. Più che stalle, si incontrano frutteti, vigneti e poche colture foraggere. Qui la produttività dei terreni è assicurata dagli apporti in azoto, fosforo e potassio, affidati in prevalenza ai concimi chimici. Perfetti per “alimentare” le piante, ma insufficienti a garantire la fertilità del terreno. Fertilità che nasce da un mirabile connubio di elementi chimici, di miliardi di microrganismi e di caratteristiche fisiche capaci di catturare l’acqua e cederla alle piante. In una parola, l’humus.

Fondamentale per l’humus è il letame dei bovini, capace com’è di arricchire il terreno di sostanza organica, migliorandone la struttura fisica, apportando al contempo una preziosa micropopolazione microbica.

Lasciate a “maturare” in concimaia, le deiezioni dei bovini mescolate con la lettiera innescano un processo di fermentazione che opera una sorta di ottimizzazione della popolazione batterica presente, sanificando la massa. L’esito è un prodotto ricco in azoto e fosforo a lento rilascio, che alle proprietà fertilizzanti associa quelle ammendanti. Quando occorre, il processo di maturazione del letame può essere “pilotato” per rispondere alle esigenze agronomiche dei diversi territori ai quali è destinato.

Senza scomodare le più recenti tecnologie per la produzione di biogas e biometano, dove il letame ha dimostrato una sostenibilità persino superiore a quella dell’idrogeno, l’allevamento del bovino si conferma un alleato dell’uomo nella lotta ai cambiamenti climatici. Accade in fase di allevamento, grazie al bilancio positivo nel sequestro di carbonio, e continua nelle fasi successive, favorendo la fertilità dei terreni. Gli stessi terreni che grazie al letame produrranno di più e miglioreranno la loro capacità di ritenzione idrica, allontanando lo spettro della desertificazione.

A cura di
Angelo Gamberini
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Un bovino per sfamare il Pianeta
Sostenibilità
29/03/2022
4 min.
Sostenibilità

La “fame” di proteine è destinata ad aumentare sotto la spinta di due fattori: la crescita della popolazione mondiale, che secondo le stime Onu (1) già oggi conta 8 miliardi di persone, e il miglioramento del tenore di vita nelle aree meno sviluppate.

Crescerà la domanda di carne, capace di assicurare un contenuto in proteine nobili e aminoacidi essenziali, scarsamente presenti nelle produzioni vegetali, e crescerà al contempo la richiesta di alimenti per il bestiame. Un processo che va opportunamente indirizzato per evitare le conseguenze negative sul piano economico, sociale e ambientale di una crescita “disordinata”. E qui entra in gioco l’allevamento dei bovini. Vediamo perché.

Capace com’è di alimentarsi con erbe e fieni, il bovino ha il vantaggio di non entrare in competizione con l’uomo per quanto riguarda il cibo. L’efficienza del suo sistema digerente lo mette in grado di utilizzare alimenti poveri e fibrosi (persino la paglia), che per l’uomo non hanno alcun valore nutritivo.

Nella dieta dei bovini trovano posto gli insilati di mais, dove tutta la pianta (dalle foglie allo stocco) viene opportunamente sminuzzata e conservata in particolari condizioni di parziale anaerobiosi. Poi gli insilati di erba e i foraggi affienati e freschi, inutilizzabili nell’alimentazione dell’uomo. Nella razione di un bovino sono presenti anche alimenti digeribili dall’uomo, ma questi rappresentano appena il 5% del totale (2).

È stato calcolato che un bovino sia in grado di produrre un chilo di proteine assumendo poco più di mezzo chilo di proteine provenienti da alimenti utilizzabili direttamente dall’uomo. In altre parole, il bovino è un contributore netto nella produzione di proteine. E i vantaggi non finiscono qui.

La particolare fisiologia dell’apparato digerente di un bovino offre la possibilità di utilizzare alimenti che residuano dalla lavorazione delle industrie alimentari. Un esempio è quello delle polpe surpressate di barbabietola, un’ottima fonte di energia e fibra che deriva dalla produzione dello zucchero. Poi le borlande di distilleria provenienti dalla lavorazione dei cereali, che vantano un elevato contenuto in proteine.

Per non parlare di quanto rimane dalle lavorazioni delle industrie molitorie, vere e proprie miniere di proteine, energia e fibra, preziose per nutrire gli animali. Inutile elencare le centinaia di questi alimenti, (è riduttivo definirli sottoprodotti), che altrimenti diverrebbero uno scarto di difficile gestione e di forte impatto ambientale.

Sul tema ambientale è necessario soffermarsi un attimo. Il bovino, al pari di ogni altro ruminante (sono tanti, dalle antilopi agli zebù), produce con le sue fermentazioni ruminali del metano che viene immesso in atmosfera. Non molto a dire il vero, ma, nonostante ciò, la ricerca è al lavoro per ridurre queste emissioni intervenendo sulla genetica e sull’alimentazione.

Molto si è già ottenuto nella riduzione dei gas climalteranti lavorando sull’efficienza degli allevamenti e sulla produttività dei singoli animali. Il risultato è riassunto in una regoletta matematica: meno animali per maggiore produzione uguale a minore impatto ambientale. C’è poi da aggiungere il ruolo che hanno prati e pascoli e colture foraggere nel sequestrare carbonio dell’atmosfera per “ingabbiarlo” nel terreno. Terreno che viene reso fertile dal letame degli stessi bovini che poi si alimentano su quei prati o che ne utilizzano i foraggi, in un naturale ciclo di economia circolare. C’è chi ha fatto le somme (3) di questo percorso virtuoso e ha scoperto come sia maggiore la quantità di CO2 equivalente che viene sequestrata rispetto a quella emessa. Come per le proteine, anche in questo caso il bovino è un “contributore netto” per il miglioramento ambientale.

Per tornare alla “fame di proteine” che attende il nostro Pianeta, il bovino ci offre la soluzione più convincente per mettere in equilibrio domanda di carne e impatto ambientale. Equilibrio che si ritrova sul piano sociale quando si pensi al ruolo che il bovino può interpretare nei paesi in fase di crescita. Il punto di forza del bovino sta nell’assenza di competizione alimentare con l’uomo e nella grande capacità di adattamento all’ambiente. Non a caso i bovini vantano un ampio ventaglio di razze, segno di grande biodiversità, maggiore di quella di altre specie di interesse zootecnico. A tutto ciò si aggiunge l’eliminazione degli sprechi, grazie alla possibilità di valorizzare residui di altre lavorazioni alimentari. Si calcola che oggi quasi il 70% della produzione mondiale di carne sia soddisfatta da suini e avicoli e circa il 20% dai bovini. Un rapporto che domani, in un mondo più popolato, sarebbe forse opportuno riequilibrare. Molti ne trarrebbero beneficio, ambiente compreso.

1. United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division (2019). World Population Prospects 2019, Volume I: Comprehensive Tables (ST/ESA/SER.A/426).
2. Mottet, A., Teillard, F., Boettcher, P., De’Besi, G., & Besbes, B. (2018). Domestic herbivores and food security: current contribution, trends and challenges for a sustainable development. Animal, 12(s2), s188-s198.
3. De Vivo, R., & Zicarelli, L. (2021). Influence of carbon fixation on the mitigation of greenhouse gas emissions from livestock activities in Italy and the achievement of carbon neutrality. Translational Animal Science, 5(3), txab042.
A cura di
Angelo Gamberini