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Cosa succederebbe se non ci fossero più allevamenti in Italia?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

Concepire un mondo senza allevamenti è uno sforzo di immaginazione difficile, ma non impossibile. Le conseguenze potrebbero però alterare la realtà in modo radicale, intaccando un patrimonio economico, sociale e culturale fondamentale per il nostro Paese e minando un equilibrio ambientale e paesaggistico che si regge anche sulla presenza e l’azione dei ruminanti nelle aree geografiche in cui sono da sempre presenti.

Il bovino, perché è importante

La ricchezza che ci regalano i bovini deriva dalla loro capacità di trasformare alimenti che noi non potremmo mai utilizzare, perché ricchi in fibre indigeribili e poveri in principi nutrivi quali i foraggi, in una “montagna” di proteine e di micronutrienti indispensabili al nostro benessere e alla nostra salute. Inoltre, i bovini, in quanto ruminanti, sono capaci di “organicare” l’azoto trasformando molecole tossiche, quali i nitrati di cui sono ricchi i vegetali, in proteine nobili che ritroviamo poi nelle loro carni. Questo processo è possibile perché nel rumine-reticolo alberga una micro-popolazione di batteri, protozoi e funghi capaci di degradare la fibra dei foraggi, per noi totalmente indigeribile, e valorizzarne l’azoto: questi animali si sono evoluti introitando una sorta di brodo primordiale che, in assenza di ossigeno, non consuma completamente la sostanza organica, ma la trasforma a vantaggio dell’ospite che ne trae energia e composti azotati, principalmente proteine, di qualità di gran lunga migliore di quelli presenti nei foraggi ingeriti.

La ‘madre’ di molte filiere

Oltre ai preziosi prodotti principali, la carne e il latte, la cui mancata produzione peserebbe notevolmente sulle tasche degli italiani per l’aggravio dovuto alle importazioni, l’allevamento del bovino è una ricca fonte di co-prodotti e sottoprodotti quali pelle e organi interni che possono essere utilizzati per numerosi altri scopi e in settori diversi.

Ecco alcuni esempi:
– le ossa sono utilizzate per la produzione di mangimi per gli animali da compagnia, ma anche di farine proteiche, fertilizzanti, gelatina per uso alimentare;
– la pelle è utilizzata per la produzione di beni durevoli, ma ecologicamente sostenibili in quanto naturali al contrario dei derivati delle plastiche che devono essere smaltite, quali pellami e cuoio: vitello per articoli di lusso (scarpe, borsette, cinture, ecc), vitellone per settore automotive (sedili delle auto), protezioni per divani e cuoieria per foderare internamente le calzature;
– il grasso viene utilizzato nell’industria cosmetica e chimica (saponi), oltre che per uso zootecnico;
– le cartilagini sono impiegate per la produzione di prodotti alimentari addensanti, nonché per la formulazione di pet food e pet toys;
– le parti grasse bovine sono anche impiegate per la produzione di gelatine, utilizzate in ambito farmaceutico per la preparazione di film utili all’incapsulazione dei farmaci;
– il sangue bovino è impiegato per la produzione di fertilizzanti;
– i tessuti valvolari sono impiegati per la preparazione di dispositivi medici (valvole cardiache);
– le colature grasse, il contenuto ruminale e altri scarti sono utilizzati come fonti rinnovabili per la produzione di energia verde (biometano e calore);
– l’abomaso (l’ultimo dei quattro stomaci dei ruminanti), è impiegato dall’industria casearia per la produzione di caglio (l’unico coagulante permesso per la produzione di formaggi DOP quali, ad esempio, il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano);
Anche gli effluenti prodotti dagli animali sono utili perché impiegati come fertilizzanti agricoli (gli unici consentiti nell’agricoltura biologica) o come fonti di energia rinnovabile, determinando un notevole vantaggio ambientale rispetto alla situazione in cui concimi ed energia vengano prodotti per altre vie ‘convenzionali’.

Per favorire uno smaltimento ‘verde’ di liquami, deiezioni, rifiuti organici, sterpaglie ed altri vegetali provenienti dalle attività di allevamento, le aziende agricole hanno ormai dappertutto costruito piccoli impianti a biogas, i quali producono al tempo stesso energia pulita ed utile per l’auto-alimentazione dell’azienda. Inoltre, il digestato che residua dopo il processo di produzione energetica è un ottimo fertilizzante in quanto le parti altamente solubili delle deiezioni sono state fissate e gli odori sgradevoli, abbattuti. Da questo impiego intelligente degli effluenti zootecnici si ottiene, quindi, nuovo valore rappresentato dall’uso dei derivati delle biomasse (biogas e digestato), nonché dalla loro produzione ecosostenibile. Considerando il valore economico delle produzioni principali e quello di utilizzo di tutta la ‘produzione collaterale’ dell’allevamento (basta menzionare nuovamente l’industria calzaturiera e le pelletterie per farsene facilmente un’idea) diventa palese quanto questo comparto rappresenti una ‘fabbrica di valore’ totalmente ecosostenibile per il Paese e in generale per la società contemporanea.

Una perdita per la cultura

In Italia, la figura dell’allevatore ha accompagnato la storia dell’uomo fin dai suoi albori. Ne abbiamo già parlato qui. Ma non è tutto: l’allevatore, infatti, non è soltanto una persona che conosce i cicli produttivi e riproduttivi degli animali, che li seleziona, li cura, li custodisce e tramanda così un mestiere millenario; è anche colui che sa leggere segni e segnali che un allevamento genera continuamente per interpretarli non solo a proprio favore, ma anche a vantaggio dei propri animali. Il rapporto tra allevatore e ambiente, infatti, è strettissimo, non dissimile da quello che l’agricoltore ha con la propria terra.

La sensibilità e l’attenzione unica alla base di questa professione ha consentito agli allevatori italiani di selezionare e custodire le razze bovine che oggi conosciamo: grazie al loro operato millenario, il nostro Paese può vantare alcune delle più pregiate e rinomate etno-popolazioni, varietà genetiche strettamente legate a un territorio di cui sono diventate espressione. Se non protette e valorizzate, le razze locali sono soggette a forte erosione genetica, rischiando così di scomparire con conseguente grave danno per la perdita di biodiversità, per l’economia e per l’identità del posto.

Una perdita… per l’ambiente e il paesaggio!

In Italia, le razze locali svolgono un ruolo fondamentale per il paesaggio e per l’ambiente. La loro capacità di adattarsi a territori ostili, non utilizzabili convenientemente per le coltivazioni, fa sì che queste svolgano una vera e propria opera di “manutenzione” di queste aree, altrimenti destinate ad essere abbandonate e progressivamente a inselvatichirsi. A titolo di esempio, gli alpeggi e i pascoli montani del nord o le aree rurali in regioni quali la Calabria o la Sicilia, rischierebbero la desertificazione antropica senza l’allevamento delle razze locali.
Il ruolo dei bovini nel mantenimento del paesaggio rurale italiano è, poi, rilevante: con la loro presenza, modellano le forme di oltre 1/3 del territorio rurale, regalandoci il mosaico che caratterizza uno dei principali attrattori turistici del Bel Paese.
In definitiva, si può affermare che gli allevamenti hanno stretto un vero e proprio patto con la natura e con i suoi cicli, un equilibrio che potrebbe essere gravemente compromesso se anche solo uno dei tasselli che lo compongono venisse meno.

A cura di
Giuseppe Pulina
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Bovini, water footprint ed emissioni di CO2: quale l’impatto reale?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

È necessario eliminare la carne dalla propria alimentazione per salvare il pianeta. Gli allevamenti sono i principali responsabili della produzione di metano e quindi dell’inquinamento ambientale. Nulla come gli allevamenti erode risorse naturali e sottrae spazio alle coltivazioni. Le coltivazioni sono di gran lunga più sostenibile dell’allevamento.

Tutte queste frasi altro non sono che luoghi comuni, radicatisi anno dopo anno nella “cultura generale” e che contribuiscono ad alimentare una serie di fake news dannose per i consumatori.

All’origine dell’equivoco

È il 2006 e la FAO pubblica il rapporto “Livestock’s Long Shadow” che per primo porta alla luce il legame tra allevamenti e cambiamento climatico. L’impatto dello studio è enorme: l’opinione pubblica si allarma, associazioni ambientaliste e comunicatori iniziano a connotare negativamente la produzione e il consumo di carne fino ad arrivare a incolpare i bovini per i problemi ambientali perché, stando alla ricerca della FAO, inciderebbero più dei trasporti sul cambiamento climatico e sarebbero responsabili del 18% delle emissioni mondiali di CO2 equivalente.

Le cifre sono così fuori scala che la comunità scientifica si mobilita, rifà i conti e contesta il report mettendone in discussione gli assunti. Fra gli scienziati più attivi si conta Frank Mitloehner, professore della Università della California UC Davis, che ha contestato il primo rapporto evidenziando come la metodologia applicata nel calcolo degli impatti dell’allevamento fosse diversa rispetto al calcolo delle emissioni dei trasporti. Osservazione accolta anche da Pierre Gerber, uno dei ricercatori che lavorarono al rapporto stesso. L’errore? Per gli animali in allevamento sono state calcolate le emissioni di tutto il ciclo produttivo della carne, il cosiddetto Life Cycle Assessment, con uno specifico modello denominato Global Livestock Environmental Assessment Model (GLEAM). In altre parole, hanno sommato le emissioni a partire dalla coltivazione dei cereali per i mangimi, trasformazione e conservazione della carne e il packaging. Per i trasporti, invece, sono state considerate solo le emissioni dei gas di scarico dei mezzi mentre non sono stati calcolati tutti gli impatti derivanti dall’industria automobilistica, navale e aeroportuale necessari alla costruzione dei mezzi stessi (gomma, acciaio, plastica, vetro, estrazione petrolio, ecc.). Questo ha reso il confronto non omogeneo e sbilanciato e soprattutto poco obiettivo, producendo un dato fuorviante e non veritiero. Dopo 7 anni la FAO rilascia un secondo rapporto che ridimensiona gli impatti di tutta la zootecnia mondiale, fissandoli al 14,5% delle emissioni.

Oggi cosa dicono i dati?

Nel 2013 la FAO ha aggiornato lo studio, rivedendo gli impatti mondiali della filiera zootecnica con la pubblicazione del rapporto “Tackling Climate Change through Livestock”, eliminando il confronto con i mezzi di trasporto, ma tenedo sempre l’uso del suolo e il suo cambiamento (aspetto particolarmente critico quando si parla di emissioni per la difficoltà di eseguire calcoli accurati). Il dato relativo alle emissioni dell’allevamento, come detto, è passato dal 18% al 14,5% (media mondiale di tutte le produzioni zootecniche, bovino, pollo, suino, uova e latte, calcolate con il metodo GLEAM). La restante percentuale, che si attesta attorno all’ 80%, è invece imputabile all’utilizzo dei combustibili fossili quali petrolio, carbone e gas impiegata come energia nei trasporti, nell’industria e nel settore residenziale, mentre un 5% è imputato alla produzione di cemento. Anche basando il confronto solo sulle emissioni dirette il rapporto non cambia: gli animali sono responsabili del 5% delle emissioni, mentre i trasporti del 14%.

Le emissioni non sono tutte uguali

A questo punto però qualcuno potrebbe obiettare che sebbene gli allevamenti inquinino decisamente meno rispetto a quello che i più pensano, tuttavia rimangono parte di un sistema inquinante… giusto? Per rispondere è necessario un rapido ripasso delle nostre conoscenze scientifiche di base. Il metano, considerato il principale gas climalterante degli allevamenti, emesso dai bovini e da altri ruminanti (ma anche i cavalli emettono metano e in quantità ridotta, anche l’uomo) fa parte di un ciclo naturale, cosiddetto biogenico, che è molto diverso dall’anidride carbonica immessa in atmosfera dai mezzi di trasporto o dall’industria. Il ciclo inizia dalla crescita dell’erba e dei foraggi utili per alimentare il bovino. Attraverso la fotosintesi, le piante catturano l’anidride carbonica (CO2) dall’aria, producono carboidrati (CHO) e rilasciano ossigeno (O2) in atmosfera. I carboidrati contenente la parte di carbonio naturalmente presente nella pianta (C) sono poi ingeriti dai bovini e lo stesso carbonio, durante la digestione microbica che avviene nel rumine dell’animale, è trasformato in metano (CH4) poi rilasciato nell’aria dagli animali. A differenza delle emissioni derivate dai combustibili fossili e dalla fabbricazione del cemento che negli anni si sono accumulate in atmosfera e vi permarranno per circa mille anni, il metano prodotto dagli allevamenti è riassorbito in tempi rapidi dalle piante e rientra nel ciclo vitale. Infatti, dopo circa dieci anni, il metano atmosferico (CH4) è scomposto in acqua (H2O) e anidride carbonica (CO2): quest’ultima molecola verrà riassorbita proprio dalle piante, le stesse che diventeranno nutrimento per i bovini, per riattivare il ciclo. In sintesi, il carbonio fossile è un carbonio morto che si accumula in atmosfera, quello del metano emesso dai bovini è un carbonio vivo che rientra nel ciclo della vita e non si accumula.

Elaborazione grafica da “Global Dairy Platform 2020”

A proposito di Water Footprint

Tra le critiche rivolte alle filiere zootecniche c’è quella che vede gli allevamenti come sistemi che erodono le risorse idriche del pianeta poiché per produrre 1 kg di carne sarebbero necessari 15.400 litri di acqua. Anche in questo caso, è necessario fare chiarezza. Per prima cosa, è importante precisare che questo impatto è calcolato sommando la cosiddetta “acqua verde” con l’“acqua blu” e l’“acqua grigia”. L’acqua verde è quella piovana, che consente la crescita della vegetazione che nutre le mandrie, e di cui l’uomo non può servirsi. L’acqua blu, invece, è l’acqua prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, come fiumi e ruscelli. Infine l’acqua grigia rappresenta il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. La stragrande maggioranza dell’acqua imputata alle produzioni animali è quella che piove sui vegetali , la cosiddetta acqua verde, che rappresenta il 94% dell’acqua imputata alle filiere bovine. Tutta quest’acqua non è realmente consumata perché evapotraspira nell’atmosfera e ritorna nel ciclo naturale con le precipitazioni. La percentuale di acqua blu “sottratta” alle riserve destinate all’uomo è quindi minima e rappresenta appena il 3% del totale, così come l’acqua grigia che, nel peggiore dei casi (mancanza di depurazione, uso sconsiderato delle deiezioni, sovraconcimazione, uso eccessivo di fitofarmaci) rappresenta appena il 3%. Pertanto, il modo corretto per calcolare l’impronta idrica è quello di considerare l’acqua verde al netto della evapotraspirazione di una vegetazione naturale, ottenendo così l’”acqua verde netta” e, conseguentemente, la water footprint netta.

Elaborazione grafica da “La Sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia” edito da FrancoAngeli, 2018

Quali sono gli impatti dell’allevamento bovino in Italia?

In Italia l’allevamento bovino ha un impatto per emission di gas climalteranti pari al 3,7% del totale (rielaborazione su dati ISPRA 2021). In Italia, recenti pubblicazioni scientifiche hanno calcolato il Net Waterfootprint (WFPnet) (Atzori et al., 2016) che per produrre 1 kg di carne bovina risulta, nel caso più virtuoso, pari a 790 litri di acqua. Pertanto, possiamo affermare che per produrre 100 g di carne oggi in Italia si consumano solo 79 litri di acqua nell’ipotesi della migliore utilizzazione dell’oro blu.

A cura di
Giuseppe Pulina