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Carne rossa e salute: come cuocerla al meglio
Nutrizione
16/06/2023
2 min.
Nutrizione

La carne rossa è un’importante fonte di proteine e di nutrienti essenziali, tra cui ferro, zinco e vitamina B12 

Per questo motivo è importante integrare correttamente questo alimento dalla dieta: un aspetto che ha un impatto sulla salute che spesso viene trascurato è la modalità di cottura della carne. 

Le alte temperature raggiunte durante la cottura possono favorire la produzione di sostanze nocive quali le ammine eterocicliche (o HCA, dall’inglese HeteroCyclic Amine) e di idrocarburi policiclici aromatici (IPA).  

Pertanto, al fine di consumare carne riducendo i rischi derivanti da alcune tipologie di cottura, è bene prestare la giusta attenzione alle modalità di cottura e limitare a rare occasioni le modalità di cottura più “aggressive” (temperature superiori a 150-180°C, tempi prolungati, esposizione diretta della carne alla fiamma) come il barbecue e la frittura, riducendo in maniera significativa l’apporto nella dieta di molecole ad attività potenzialmente nociva. 

Allo scopo di abbreviare i tempi di cottura sulla griglia, è consigliabile ad esempio effettuare una precottura nel forno. Altra accortezza: durante la cottura al barbecue, andrebbero puliti immediatamente i gocciolamenti di grasso e la carne dovrebbe essere girata frequentemente per evitare che si bruci, oppure cuocere la carne avvolta in fogli di alluminio, limitando il rischio di carbonizzazione.  

Utile anche bilanciare il pasto con verdure ricche in carotenoidi e antiossidanti, quali pomodori e carote. 

Ultima pratica utile: la marinatura. Marinare la carne prima di sottoporla a cottura utilizzando olio di oliva, vino, succo di limone, aglio e spezie può contrastare efficacemente la formazione di composti nocivi quali le ammine eterocicliche. 

Via libera, invece, alle modalità di cottura più delicate quali la cottura al vapore, la stufatura, la bollitura

McAfee AJ, McSorley EM, Cuskelly GJ, Moss BW, Wallace JM, Bonham MP, et al. (2009). Red meat consumption: an overview of the risks and benefits. Meat Science. 84(1): 1-13. doi: 10.1016/j.meatsci.2009.08.029.

WHO-IARC. (2015). IARC Monographs evaluate consumption of red meat and processed meat, 26 ottobre 2015.

Magkos F, Rasmussen SI, Hjorth MF, Asping S, Rosenkrans MI, Sjödin AM, et al. (2022). Unprocessed red meat in the dietary treatment of obesity: a randomized controlled trial of beef supplementation during weight maintenance after successful weight loss. American Journal of Clinical Nutrition. 116(6): 1820-1830. doi: 10.1093/ajcn/nqac152.

Lee JG, Kim SY, Moon JS, Kim SH, Kang DH, Yoon HJ. (2015). Effects of grilling procedures on levels of polycyclic aromatic hydrocarbons in grilled meats. Food Chemistry. 199: 632-638. doi: 10.1016/j.foodchem.2015.12.017.
A cura di
Redazione
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Simposio internazionale COW IS VEG – I videointerventi dei relatori
Sostenibilità
03/10/2022
2 min.
Sostenibilità

Durante la sessione “CARNE ROSSA TRA SOSTENIBILITÀ, NUTRIZIONE E FUTURO”, un parterre di esperti internazionali ha presentato dati inediti per rivelare il reale impatto della carne rossa su ambiente e nutrizione, affrontando il tema sotto diversi punti di vista, tutti di grande attualità: dagli obiettivi di sviluppo sostenibile, ai cambiamenti climatici, alla malnutrizione, passando per l’evoluzione dell’uomo.

 

Il contributo globale della zootecnia agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile: opportunità e sfide

ANNE MOTTET, Livestock Development Officer, United Nations Food and Agriculture Organization – FAO

 

Cambiamento climatico e allevamenti: come la gestione del metano può rendere il bovino parte della soluzione

FRANK MITLOEHNER, Professore e Air Quality Extension Specialist, UC Davis –  USA

 

Dieta ed evoluzione: come il consumo di carne ci ha resi umani

MIKI BEN-DOR, Ricercatore in nutrizione e diete ancestrali, Dipartimento di Archeologia, Tel Aviv University – Israele

 

Mangiare meno carne non salverà il pianeta: l’importanza di una corretta nutrizione

FREDERIC LEROY, Professore nel campo della Scienza dell’Alimentazione, Vrije Universiteit Brussel – Belgio

 

Si è parlato inoltre del VALORE SOCIALE ED ECONOMICO DEL SETTORE BOVINO IN ITALIA, con GIUSEPPE PULINA, Professore Ordinario di Etica e Sostenibilità delle produzioni animali presso l’Università di Sassari, che ha presentato nuovi dati per mostrare la distintività dell’allevamento bovino italiano, in particolare in termini di impatto ambientale.

 

Allargando lo sguardo a livello più globale, il prof. Pulina ha infine evidenziato come la zootecnia in Europa sia estremamente più virtuosa che altrove, e il termine “intensivo” acquisisce un significato del tutto nuovo e di valore.

 

A cura di
Redazione
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Efficienza e sostenibilità: il settore della carne bovina parte della soluzione per vincere la sfida globale dell’alimentazione
Sostenibilità
30/09/2022
7 min.
Sostenibilità

Il Simposio Scientifico Internazionale “Cow is Veg – Il ruolo dei ruminanti in una dieta sostenibile” presenta dati inediti che rivelano il reale impatto della carne rossa su ambiente e nutrizione.

 

Roma, 29 settembre 2022 –  La sfida globale del settore agroalimentare per i prossimi anni consisterà nel garantire cibo sicuro e prodotto in maniera sostenibile a una popolazione crescente, con le previsioni che parlano di 9,7 miliardi di persone entro il 2050. Se per qualcuno la soluzione per conciliare disponibilità alimentare e ambiente dovrebbe essere smettere di produrre e consumare carne, secondo le stime FAO, invece, in uno scenario sostenibile, sarà necessario garantire un aumento medio del 30% della disponibilità di alimenti di origine animale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo (Fonte: FAO. 2018. The future of food and agriculture). E proprio sulla sinergia fra nuove sfide della food security e sostenibilità, si è tenuto oggi a Roma il simposio “Cow is Veg – Il ruolo dei ruminanti in una dieta sostenibile” organizzato da Assocarni in collaborazione con Coldiretti, durante il quale un parterre di scienziati internazionali si è confrontato su questo tema.

 

In particolare sull’importanza di guardare al sistema zootecnico sotto differenti aspetti – ambientale, ma anche economico e sociale – è intervenuto Maurizio Martina, Vicedirettore Generale della FAO, che ha sottolineato l’apporto di queste filiere “alla grande sfida della sostenibilità” e ha ribadito il valore di un approccio scientifico e ragionato al tema ricordando che nel mondo 1 miliardo e 300 milioni di persone vivono grazie al lavoro in zootecnia. E proprio nell’ottica di considerare le filiere zootecniche come parte di un nuovo equilibrio sostenibile, il Vicedirettore generale della Fao ha detto: “Sono molte le questioni importanti sui cui si può lavorare insieme: contro le emissioni, sulla qualità dei mangimi, sull’utilizzo dei terreni e dei suoli, per la selezione delle razze, sulla gestione dei reflui, per la circolarità integrale dei sistemi zootecnici. Temi concreti che aiutano a spostare in avanti l’equilibrio per renderlo sempre più sostenibile e più avanzato” E ha concluso Martina “In questo senso non abbiamo bisogno di approcci ideologici, ma di buone pratiche che ci facciano lavorare insieme”.

 

L’agricoltura, di cui la zootecnia è parte integrante, ha già risposto con i fatti sulla capacità di aumentare la produzione riducendo gli impatti: negli ultimi 30 anni il comparto agricolo ha sfamato quasi 2,5 miliardi di persone in più riducendo le emissioni pro-capite di circa il 20% (Fonte: Our World in Data).

Sul fronte del consumo di acqua e di suolo e della cosiddetta feed vs food competition, ad esempio, in questi anni sono emersi dati importanti capaci di fare chiarezza in un panorama informativo spesso inquinato da dannose fake news.

 

In un contesto come quello che si sta delineando – aumento della popolazione, aumento del reddito medio e contestuale aumento della richiesta di alimenti di origine animale –  la capacità dei ruminanti di convertire erba e vegetali ricchi in cellulosa in proteine, senza entrare in competizione con l’uomo, è un’opportunità unica per il settore zootecnico di contribuire alla food security con proteine ad alto valore biologico. Ma non solo, i ruminati si mostrano estremamente efficienti nella conversione delle proteine vegetali in proteine animali. Su questo Anne Mottet, Livestock Development Officer presso la FAO, intervenuta ai lavori della mattinata, ha affermato che “L’intero settore zootecnico mondiale consuma circa un terzo dei cereali che produciamo. Ma questa quota può essere ridotta. In particolare, i ruminati hanno un più efficiente indice di conversione proteica: sono in grado di produrre un chilo di proteine assumendo solo seicento grammi di proteine vegetali.  Anche per quanto riguarda il land use, il settore zootecnico globale utilizza circa 2,5 miliardi di ettari di suolo, il 77% dei quali sono praterie, per gran parte non coltivabili e quindi utilizzabili solo dagli animali al pascolo, che se riconvertite a colture creerebbero danni ai servizi ecosistemici.”

 

Se oggi la produzione e il consumo di carne sono dunque al centro di un dibattito pubblico spesso fortemente polarizzato che influenza la lettura dei dati riguardanti la salute e gli impatti ambientali, emergono in parallelo dati più che confortanti, che vedono gli allevamenti bovini come parte integrata della soluzione climatica. Come spiega il Prof. Frank Mitloehner, Air Quality specialist in Cooperative Extension presso il Dipartimento di Scienze Animali della UC Davis, “I bovini sono spesso etichettati erroneamente come un problema climatico, mentre in realtà rappresentano un’opportunità: gestendo al meglio le emissioni, soprattutto di metano, i bovini diventano parte della soluzione climatica. In alcune regioni, l’allevamento può raggiungere la neutralità climatica – il punto in cui non comporta ulteriore riscaldamento climatico – con riduzioni fattibili di metano, il tutto fornendo al contempo alimenti altamente nutrienti”.

 

Uno studio più attento delle emissioni di gas serra fa emergere, infatti, come anidride carbonica e metano non abbiano la stessa permanenza in atmosfera e lo stesso impatto sul clima. In particolare, il metano emesso naturalmente dai bovini, viene scomposto in atmosfera e riconvertito in CO2 nel giro di dieci anni per poi essere riassorbito dalle piante con la fotosintesi, rientrando nel naturale ciclo biogenico del carbonio. Invece la CO2 prodotta dai combustibili fossili si accumula e permane in atmosfera potenzialmente per mille anni. Agendo, quindi, sul contenimento delle emissioni di metano dei bovini si opererebbe un effettivo sequestro di carbonio in atmosfera, rendendo di fatto la zootecnia un settore attivo nella lotta al cambiamento climatico, in opposizione a quanto si ritiene erroneamente oggi.

 

La carne, inoltre, continua a rivestire un’importanza determinante dal punto di vista nutrizionale: evitare o ridurre eccessivamente l’assunzione di carne può rendere le diete meno equilibrate soprattutto per i giovani e le fasce di popolazione più fragili, tra cui le donne in età riproduttiva, gli anziani e le persone affette da patologie.

 

La carne, infatti, è un’importante fonte di proteine di alta qualità e di vari micronutrienti di cui si rilevano carenze a livello globale (anche presso gran parte delle popolazioni occidentali) come ferro, zinco e vitamina B12. Come riportato da Frederic Leroy, Professore nel campo della Scienza dell’Alimentazione presso la Vrije Universiteit Brussel, e relatore al simposio, “Nonostante si tratti dell’alimento che ha accompagnato l’evoluzione della specie umana costituito da proteine di qualità e micronutrienti altamente biodisponibili, l’assunzione di molti dei quali è peraltro limitata da parte della popolazione, spesso la carne viene ingiustamente inquadrata come una scelta alimentare non salutare. Al contrario, la carne dovrebbe essere considerata un alimento chiave per migliorare lo stato nutrizionale nell’ambito di una dieta sana, soprattutto per le popolazioni con esigenze nutrizionali elevate. Prescindere dal ruolo nutrizionale degli alimenti nel formulare raccomandazioni per un consumo meno impattante per l’ambiente rappresenta infatti un grave errore”, continua Leroy: “è assolutamente fondamentale tenere in considerazione e incorporare tali vantaggi nutrizionali anche nelle valutazioni di carattere ambientale, per consentire confronti e valutazioni equi”.

 

La valenza nutrizionale della carne rappresenta inoltre un importante retaggio evoluzionistico che caratterizza la nostra specie da oltre due milioni di anni. “Le evidenze circa il metabolismo indicano che gli esseri umani, evolutisi nel Paleolitico come ‘ipercarnivori’, sono ancora adattati a una dieta in cui i lipidi e le proteine, piuttosto che i carboidrati, offrono un contributo importante all’approvvigionamento energetico” ha dichiarato Miki Ben-Dor, Ricercatore in nutrizione e diete ancestrali presso il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Tel Aviv.

 

Alla luce di queste riflessioni, emerge chiaramente l’importanza di guardare con fiducia al settore zootecnico e alle sue evoluzioni in grado di contribuire positivamente all’auspicata neutralità climatica futura, così come è necessario cominciare a guardare ai bovini come a una risposta concreta e sostenibile alla crescente richiesta di proteine di alta qualità da parte della popolazione globale.

A cura di
Redazione
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Il bovino, un passato e un futuro di successo
Sostenibilità
26/07/2022
4 min.
Sostenibilità

Quando l’uomo ha fatto i suoi primi passi sulla terra, circa 4 milioni di anni fa, il bovino c’era già. Assai diverso da quello di oggi, certo, come diversi da noi erano gli australopitechi dai quali si fa iniziare il percorso evolutivo dell’uomo. Tozzo, resistente, capace di sopravvivere in condizioni estreme, l’antico Bos planifrons delle origini evolverà durante il pleistocene nell’Uro o Bos taurus primigenius, progenitore dei bovini.

Presto si rivelerà all’uomo come una fonte di cibo prezioso, ricco di quelle proteine delle quali il cervello dell’Homo abilis e poi dell’Homo erectus ha bisogno per la sua crescita. Relativamente facile da cacciare, il Bos primigenius non si limitava a fornire cibo, ma la sua pelle si trasformava in indumenti per proteggersi dal freddo, le sue grandi corna cave diventavano contenitori o si trasformavano in arnesi da lavoro.

Grazie ai suoi quattro stomaci, che contraddistinguono tutti i ruminanti, il bovino può trarre sostentamento da vegetali anche poveri di nutrienti. Per merito della particolare fisiologia del suo apparato digerente, è praticamente indipendente dalle fonti alimentari delle quali dispone. Tanto da essere in grado di sintetizzare autonomamente aminoacidi e vitamine che non sono presenti nel cibo che assume. Un compito impossibile per chi di stomaci ne possiede uno solo, come nel caso dell’uomo.

Non è un caso se fra i perissodattili del Cenozoico, ricco di vegetazione, i ruminanti resistettero meglio di altri erbivori e tuttora sono rappresentati da oltre 70 generi, fra i quali il bovino del quale ci occupiamo. Una storia di successo, che prelude a un futuro di successo, ma di questo parleremo poi.

Dunque, dalla notte dei tempi il bovino ha continuato ad aiutare l’uomo, assumendosi il compito di mangiare erba e vegetali (indigeribili per l’uomo) trasformandoli in proteine, energia e vitamine.

Quando l’uomo cacciatore divenne uomo agricoltore (in parte costretto dagli eventi, come la mancanza di prede), non tardò a comprendere che il bovino non era solo carne.

Il latte che fa crescere i vitelli è un prezioso alimento, quasi importante come la carne. Ma il latte non si può “cacciare”, per ottenerlo occorre “stringere un patto” con il bovino, assicurandogli in cambio cibo e protezione. È l’inizio della domesticazione e della collaborazione fra uomo e bovino che continua anche oggi.

Con la domesticazione, che gli storici fanno risalire a circa diecimila anni fa, il bovino si trasforma da riserva di cibo a forza motrice per spingere il primo rudimentale aratro, il cui vomere era prima in legno e poi in ferro. Il bovino diventa così un importante protagonista della storia dell’uomo. Emblema di fertilità il toro che feconda la terra, animale sacrificale per le divinità, simbolo di forza e coraggio, a volte eretto egli stesso a divinità.

Molte le raffigurazioni che così lo rappresentano millenni avanti Cristo. Steli egizie, ceramiche greche, affreschi pompeiani, reperti archeologici fra Asia, Africa ed Europa, dove il bovino si è più diffuso, sono lì a testimoniarne ruolo e importanza.

Dunque, non solo carne e latte, ma anche lavoro, è quanto si è chiesto al bovino. Nascono così, guidate dall’uomo, le razze bovine a triplice attitudine che hanno popolato le nostre campagne sino all’avvento, agli inizi del secolo scorso, dei primi trattori.

Incontriamo i progenitori del gigante toscano, la razza Chianina, del muscoloso Piemontese e della frugale Podolica, e delle tante altre razze che confermano la capacità del bovino di adattarsi al meglio all’ambiente che lo ospita.

Non dovendo più assolvere al compito di forza motrice, oggi il bovino può fare al meglio ciò che gli è più congeniale, produrre carne e latte. E lo può fare con la stessa efficienza che gli ha consentito di superare indenne una storia lunga milioni di anni. Ha aiutato l’uomo ad essere come lo conosciamo oggi e ha le carte in regola per accompagnarlo nelle sfide del futuro, prima fra tutte quella alimentare.

Ci attende un mondo sempre più popolato (le proiezioni indicano in 9,7 miliardi la popolazione mondiale nel 2050) e non sarà facile per la stessa terra di ieri sfamare l’uomo di domani.

Il bovino, che non compete con l’uomo in quanto a cibo, si rivelerà prezioso per fornirci proteine nobili, energia e vitamine. E se in un lontanissimo passato ci dava cibo e un riparo dal freddo con la sua pelle, domani potrebbe scaldarci con i frutti del suo metabolismo. Trasformati in biogas e biometano.

A cura di
Angelo Gamberini
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Quanto impatta davvero l’allevamento in Italia?
Sostenibilità
07/07/2022
3 min.
Sostenibilità

Il dibattito sull’impatto ambientale delle produzioni agroalimentari e zootecniche continua ormai da anni, con la zootecnia al centro come massimo esponente e i bovini come maggiori responsabili del cambiamento climatico. Tuttavia, diversamente dalle fuorvianti informazioni che si trovano sul web, nel suo complesso la filiera delle carni bovine non ha un elevato impatto in termini di emissioni di anidride carbonica (CO2), ma anzi sembra partecipare al raggiungimento della neutralità climatica (1,2).

Quando si valuta l’impatto delle emissioni di gas a effetto serra che hanno le attività umane, è importante considerare tutti gli elementi che costituiscono l’attività. In particolare, per quel che riguarda l’allevamento bovino, è necessario considerare tanto la fase di allevamento quanto le fasi precedenti, come quella della produzione degli input agricoli, necessari ad assicurare ai bovini un’alimentazione corretta.

Le piante presenti nei terreni destinati al pascolo e quelle coltivate appositamente per l’alimentazione bovina, infatti, presentano un potenziale di riduzione delle emissioni di carbonio davvero notevole e sottovalutato. Grazie alla fotosintesi clorofilliana, le piante crescono assorbendo anidride carbonica e rilasciando ossigeno e, in questo modo, sottraggono carbonio all’atmosfera (processo noto come fissazione del carbonio) (1) e partecipano attivamente al contrasto dell’effetto serra (3).

In Italia, ad esempio, considerando le emissioni prodotte dagli animali e confrontandole con la capacità delle produzioni di mangimi di assorbire CO2, emerge chiaro come la filiera zootecnica, nel suo complesso, non contribuisca all’aumento dei gas a effetto serra in atmosfera ma anzi si bilanci da sola. Questa caratteristica è nota come carbon neutrality e viene descritta come la capacità di riuscire a compensare l’impatto dei gas tra una fase e l’altra della catena produttiva arrivando ad avere emissioni nette zero di CO2 (2).

Una volta chiarito questo concetto è importante capire come quantificare in numeri le emissioni di CO2.
Nella maggior parte dei casi viene usata la carbon footprint, una misura che esprime la totalità delle emissioni di gas associate direttamente o indirettamente ad un prodotto, un’organizzazione o un servizio (4). Tutti i gas che hanno un effetto sul cambiamento in atmosfera, grazie a questa misura, vengono convertiti in CO2 equivalente (CO2eq) così da poter ottenere dei valori confrontabili tra loro e quantificare numericamente le emissioni.

In Italia, complessivamente, considerando la carbon footprint, la zootecnia è responsabile di circa 66.200.000 tonnellate di CO2eq mentre i vegetali coltivati sottraggono all’atmosfera circa 73.300.000 tonnellate di CO2, con una differenza tra i valori emissione/sottrazione superiore di circa il 10% (raggiungendo così la neutralizzazione delle emissioni). In altre parole, ogni 100 kg di CO2 prodotta dall’attività zootecnica genera 110 kg di CO2 di stock nella biomassa, il che dovrebbe aiutare a compensare non solo la CO2 prodotta dall’allevamento ma anche da altre attività umane (1).

  1. De Vivo, R., & Zicarelli, L. (2021). Influence of carbon fixation on the mitigation of greenhouse gas emissions from livestock activities in Italy and the achievement of carbon neutrality. Translational Animal Science, 5(3), txab042.
    2. IPCC. (2018). Annex I: Glossary [Matthews, J.B.R. (ed.)]. In: Global Warming of 1.5°C. An IPCC Special Report on the impacts of global warming of 1.5°C above pre-industrial levels and related global greenhouse gas emission pathways, in the context of strengthening the global response to the threat of climate change, sustainable development, and efforts to eradicate poverty.
    3. Ciccarese, L., & Kloehn, S. (2010). La capacità fissativa di carbonio nei prodotti legnosi: una stima per l’Italia. Agriregionieuropa, 6, 21.
    4. Ministero della Transizione Ecologica (2022). Cos’è la «carbon footprint»? https://www.mite.gov.it/pagina/cose-la-carbon-footprint

 

A cura di
Giuseppe Pulina
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Carbon footprint e filiera delle carni italiana: tra le produzioni animali più virtuose al mondo
Sostenibilità
02/06/2022
3 min.
Sostenibilità

Per far fronte all’aumento mondiale della domanda di prodotti di origine animale e rispettare le emergenti necessità ambientali, il settore zootecnico sta re-ingegnerizzando i suoi processi produttivi, con l’obiettivo di ridurre le emissioni, limitare i consumi di acqua, migliorare il benessere degli animali e degli operatori di settore, mantenendo comunque alti gli standard di sicurezza alimentare e sostenibilità nella sua triplice accezione (ambientale, sociale ed economica).

Le filiere delle carni, infatti, dovranno garantire dei prodotti accessibili a tutte le fasce di reddito senza dimenticare l’importanza di preservare le tradizioni locali e il paesaggio rurale che le ospita.
In questo l’Italia, negli ultimi anni, si è già dimostrata un Paese vincente, soprattutto per i progressi fatti nella filiera delle carni bovine circa le emissioni in atmosfera (1).

Riduzione delle emissioni: Quale impronta di carbonio ha l’allevamento bovino in Italia?

Dal confronto effettuato tra l’impronta di carbonio della produzione delle carni bovine italiane rispetto alla media mondiale (2), emerge chiaro come le emissioni del settore bovino italiano siano meno della metà rispetto alla media delle emissioni degli altri Paesi (10,4 vs 25,3 kg di CO2 per kg di carne), ponendo il nostro Paese fra i più virtuosi al mondo (1).

Oltre a questo dato incoraggiante è interessante notare anche come, spesso, nella valutazione della filiera bovina, venga sottovalutato il potere di mitigazione delle emissioni operato dalle colture foraggere destinate all’alimentazione degli animali che, in quanto vegetali con capacità fotosintetiche, hanno un potere di fissazione di carbonio in grado di compensare le emissioni di gas serra delle fasi successive, portando il sistema nel suo complesso a bilanciarsi e partecipare alla cosiddetta carbon neutrality (3).

Questo obiettivo, oltretutto, dovrebbe basarsi su una distinzione più attenta anche circa i diversi gas a effetto serra, poiché tra loro presentano un impatto differente in termini di emissioni e permanenza in atmosfera. Ma cosa significa?

Le emissioni di gas a effetto serra sono convenzionalmente espresse in peso di CO2 equivalente (CO2eq) secondo il potenziale di riscaldamento globale (GWP), un valore attribuito ai diversi gas da standard fissi (4). Per quelli emessi dal settore dell’agricoltura e dell’allevamento, oltre all’anidride carbonica (CO2), vengono considerati determinanti anche il metano (CH4), che equivale a 25 CO2eq, e il protossido di azoto (N2O), che equivale a 298 CO2eq.

Questi valori fissi, tuttavia, non considerano la differente emivita di questi gas in atmosfera, ovvero il tempo necessario affinché la concentrazione di una sostanza si riduca a metà di quella iniziale.
A tal proposito, CO2 e N2O, permangono in atmosfera per diverse centinaia di anni, mentre il metano, principale gas climalterante attribuito all’allevamento, ha un’emivita di soli 8,6 anni, un tempo non sufficiente affinché il gas si accumuli in atmosfera e pertanto non in grado di contribuire realmente al riscaldamento globale.
Considerando così il perdurare del gas in atmosfera, dal confronto tra le emissioni di CH4 del sistema italiano negli ultimi 30 anni (5), è dunque facile capire quanto in realtà questo dato presenti un tasso di riduzione tale (-0,66%), da partecipare addirittura alla soluzione del problema del riscaldamento globale (1).

  1. Pulina, G.La sostenibilità della produzione delle carni in Italia. Giuseppe Pulina
  2. FAO, (2021). Global Livestock Environmental Assessment Model (GLEAM). https://www.fao.org/gleam/en/
  3. De Vivo, R., & Zicarelli, L. (2021). Influence of carbon fixation on the mitigation of greenhouse gas emissions from livestock activities in Italy and the achievement of carbon neutrality. Translational Animal Science, 5(3), txab042.
  4. IPCC, 2019. Climate Change and Land. https://www.ipcc.ch/srccl/.
  5. ISPRA, 2021. Italian greenhouse gas inventory – 1990-2019. ISPRA, Rapporti 341/21. ISBN 978-88-448-10467.
A cura di
Giuseppe Pulina
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La “carne vegetale” non sostituisce la carne “naturale”
Nutrizione
12/05/2022
3 min.
Nutrizione

Nonostante le apparenti somiglianze in termini di etichette nutrizionali, i metaboliti presenti nell’alternativa di carne a base vegetale e nel manzo differiscono del 90%.
Questo è quanto riportano i ricercatori della Duke University (Durham, North Carolina), in un recente studio pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature.

A fronte del crescente interesse economico e scientifico che suscitano le alternative vegetali, lo studio si è focalizzato sul confronto tra i profili dei metaboliti presenti in carne bovina e fake-meat, al fine di capire se i due alimenti potessero definirsi effettivamente interscambiabili sotto il profilo nutrizionale.
Per farlo i ricercatori si sono avvalsi dell’analisi metabolomica, una tecnica analitica che consente di misurare e confrontare un gran numero di nutrienti e metaboliti presenti nei campioni biologici. In particolare, il confronto è avvenuto tra 18 campioni di carne a base vegetale e altrettanti di carne di manzo alimentata ad erba, sottoposti prima allo stesso metodo di cottura e successivamente al test (1).

Osservando le informazioni nutrizionali in etichetta, su 113 grammi:
La fake-meat contiene 19 g di proteine, 9 g di carboidrati, 14 g di grassi (di cui 8 g saturi) e 250 kcal. Da sottolineare inoltre che, per quel che riguarda i micronutrienti, l’alternativa vegetale risulta fortificata con ferro, acido ascorbico, tiamina, riboflavina, niacina, B6, B12 e zinco.
La carne bovina, d’altra parte, contiene 24 g di proteine, 0 g di carboidrati, 14 g di grassi (di cui 5 saturi) e 220 kcal. I micronutrienti, in questo caso, fanno parte della matrice alimentare naturale.
Se fin qui le due alternative non differiscono in modo significativo, l’analisi metabolomica evidenzia invece come su 190 metaboliti selezionati tra i più comuni e spesso presenti, ben 171 sono diversi nella carne di manzo e nella fake-meat. Infatti, sono 22 i metaboliti trovati esclusivamente nella carne bovina e 51 i metaboliti in quantità superiori rispetto all’alternativa vegetale. Quest’ultima, d’altro canto, presenta 31 metaboliti non presenti nella carne di manzo e 67 composti in quantità superiori (1).

Molti di questi nutrienti sono considerati non essenziali o essenziali in base alle fasi della vita (ad esempio, l’infanzia, la gravidanza o l’età avanzata) e di conseguenza sono spesso poco considerati nelle discussioni sui requisiti nutrizionali umani (2). La loro importanza non dovrebbe tuttavia essere ignorata, poiché la loro assenza (o presenza) esercita un potenziale impatto sul metabolismo umano e sulla salute.
Ad esempio, creatinina, idrossiprolina, anserina, glucosamina e cisteamina sono solo alcuni dei nutrienti trovati esclusivamente nella carne bovina. Questi metaboliti ricoprono un importante ruolo fisiologico e antinfiammatorio e basse assunzioni si associano a disfunzioni cardiovascolari, neurocognitive, retiniche, epatiche, del muscolo scheletrico e del tessuto connettivo (3,4).
In ragione di quanto affermato, lo studio riporta come la carne bovina e le sue alternative a base vegetale non dovrebbero essere considerati veramente intercambiabili dal punto di vista nutrizionale, ma potrebbero essere visti come complementari in termini di nutrienti forniti.

 

  1. van Vliet, S., Bain, J. R., Muehlbauer, M. J., Provenza, F. D., Kronberg, S. L., Pieper, C. F., & Huffman, K. M. (2021). A metabolomics comparison of plant-based meat and grass-fed meat indicates large nutritional differences despite comparable Nutrition Facts panels. Scientific reports11(1), 1-13.
  2. Barabási, A. L., Menichetti, G., & Loscalzo, J. (2020). The unmapped chemical complexity of our diet. Nature Food1(1), 33-37.
  3. Wu, G. (2020). Important roles of dietary taurine, creatine, carnosine, anserine and 4-hydroxyproline in human nutrition and health. Amino acids52(3), 329-360.
  4. Tallima, H., & El Ridi, R. (2018). Arachidonic acid: physiological roles and potential health benefits–a review. Journal of advanced research11, 33-41.
A cura di
Nutrimi
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Il bovino, un aiuto contro la desertificazione
Sostenibilità
30/03/2022
3 min.
Sostenibilità

L’allevamento del bovino può fornire un importante contributo nel contrastare i cambiamenti climatici e ridurre l’avanzare dei processi di desertificazione. Un’affermazione che sembra in contrasto con talune convinzioni, che vorrebbero imputare all’allevamento le maggiori responsabilità in tema di impatto ambientale. Non è così, come mostrano molte evidenze scientifiche. Ma andiamo con ordine, iniziando dal prendere in esame il tema della desertificazione.

“Degrado delle terre attribuibile a varie cause, fra le quali le variazioni climatiche e le attività antropiche”. Così è stata definita la desertificazione dall’Onu (Rio 1992, Conferenza su ambiente e sviluppo), chiamata a dare una risposta a un problema che già allora era evidente. E che oggi, complice i cambiamenti climatici, si fa ancora più pressante, interessando il bacino del Mediterraneo e dunque anche l’Italia e in particolare alcune aree, anche estese, di Puglia, Sicilia e Sardegna. Coinvolgendo, inaspettatamente, una larga parte della “fertile” Pianura Padana, tanto che circa il 30% della sua superficie è predisposta al rischio di desertificazione.

Non si tratta solo di un evento congiunturale, attribuibile a periodi di siccità, ma di una trasformazione del terreno, che perdendo le sue normali caratteristiche bio-chimiche-fisiche, riduce la capacità di produrre alimenti.

Osservando come il fenomeno si presenta in Italia, si nota la maggiore criticità riscontrata nelle regioni insulari. C’è chi (Enea, progetto Riade) ha cercato di chiarirne le cause. Il clima e la piovosità hanno a questo proposito un ruolo importante, al quale si aggiunge quello delle attività antropiche.

È a questo punto che entra in ballo l’allevamento dei bovini, la cui presenza si dimostra utile per la fertilità del terreno e per il contrasto alla desertificazione. Prendiamo il caso della Sicilia, la più grande regione italiana in quanto a superficie. Modesto però il suo patrimonio bovino, che si ferma a poco oltre 339mila capi (fonte Anagrafe zootecnica), appena il 6% del totale.

E allora la vulnerabilità della pianura Padana come si giustifica? Anche in questo caso un’occhiata alla distribuzione degli allevamenti torna utile. L’area maggiormente a rischio di desertificazione è quella orientale. Più che stalle, si incontrano frutteti, vigneti e poche colture foraggere. Qui la produttività dei terreni è assicurata dagli apporti in azoto, fosforo e potassio, affidati in prevalenza ai concimi chimici. Perfetti per “alimentare” le piante, ma insufficienti a garantire la fertilità del terreno. Fertilità che nasce da un mirabile connubio di elementi chimici, di miliardi di microrganismi e di caratteristiche fisiche capaci di catturare l’acqua e cederla alle piante. In una parola, l’humus.

Fondamentale per l’humus è il letame dei bovini, capace com’è di arricchire il terreno di sostanza organica, migliorandone la struttura fisica, apportando al contempo una preziosa micropopolazione microbica.

Lasciate a “maturare” in concimaia, le deiezioni dei bovini mescolate con la lettiera innescano un processo di fermentazione che opera una sorta di ottimizzazione della popolazione batterica presente, sanificando la massa. L’esito è un prodotto ricco in azoto e fosforo a lento rilascio, che alle proprietà fertilizzanti associa quelle ammendanti. Quando occorre, il processo di maturazione del letame può essere “pilotato” per rispondere alle esigenze agronomiche dei diversi territori ai quali è destinato.

Senza scomodare le più recenti tecnologie per la produzione di biogas e biometano, dove il letame ha dimostrato una sostenibilità persino superiore a quella dell’idrogeno, l’allevamento del bovino si conferma un alleato dell’uomo nella lotta ai cambiamenti climatici. Accade in fase di allevamento, grazie al bilancio positivo nel sequestro di carbonio, e continua nelle fasi successive, favorendo la fertilità dei terreni. Gli stessi terreni che grazie al letame produrranno di più e miglioreranno la loro capacità di ritenzione idrica, allontanando lo spettro della desertificazione.

A cura di
Angelo Gamberini
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Un bovino per sfamare il Pianeta
Sostenibilità
29/03/2022
4 min.
Sostenibilità

La “fame” di proteine è destinata ad aumentare sotto la spinta di due fattori: la crescita della popolazione mondiale, che secondo le stime Onu (1) già oggi conta 8 miliardi di persone, e il miglioramento del tenore di vita nelle aree meno sviluppate.

Crescerà la domanda di carne, capace di assicurare un contenuto in proteine nobili e aminoacidi essenziali, scarsamente presenti nelle produzioni vegetali, e crescerà al contempo la richiesta di alimenti per il bestiame. Un processo che va opportunamente indirizzato per evitare le conseguenze negative sul piano economico, sociale e ambientale di una crescita “disordinata”. E qui entra in gioco l’allevamento dei bovini. Vediamo perché.

Capace com’è di alimentarsi con erbe e fieni, il bovino ha il vantaggio di non entrare in competizione con l’uomo per quanto riguarda il cibo. L’efficienza del suo sistema digerente lo mette in grado di utilizzare alimenti poveri e fibrosi (persino la paglia), che per l’uomo non hanno alcun valore nutritivo.

Nella dieta dei bovini trovano posto gli insilati di mais, dove tutta la pianta (dalle foglie allo stocco) viene opportunamente sminuzzata e conservata in particolari condizioni di parziale anaerobiosi. Poi gli insilati di erba e i foraggi affienati e freschi, inutilizzabili nell’alimentazione dell’uomo. Nella razione di un bovino sono presenti anche alimenti digeribili dall’uomo, ma questi rappresentano appena il 5% del totale (2).

È stato calcolato che un bovino sia in grado di produrre un chilo di proteine assumendo poco più di mezzo chilo di proteine provenienti da alimenti utilizzabili direttamente dall’uomo. In altre parole, il bovino è un contributore netto nella produzione di proteine. E i vantaggi non finiscono qui.

La particolare fisiologia dell’apparato digerente di un bovino offre la possibilità di utilizzare alimenti che residuano dalla lavorazione delle industrie alimentari. Un esempio è quello delle polpe surpressate di barbabietola, un’ottima fonte di energia e fibra che deriva dalla produzione dello zucchero. Poi le borlande di distilleria provenienti dalla lavorazione dei cereali, che vantano un elevato contenuto in proteine.

Per non parlare di quanto rimane dalle lavorazioni delle industrie molitorie, vere e proprie miniere di proteine, energia e fibra, preziose per nutrire gli animali. Inutile elencare le centinaia di questi alimenti, (è riduttivo definirli sottoprodotti), che altrimenti diverrebbero uno scarto di difficile gestione e di forte impatto ambientale.

Sul tema ambientale è necessario soffermarsi un attimo. Il bovino, al pari di ogni altro ruminante (sono tanti, dalle antilopi agli zebù), produce con le sue fermentazioni ruminali del metano che viene immesso in atmosfera. Non molto a dire il vero, ma, nonostante ciò, la ricerca è al lavoro per ridurre queste emissioni intervenendo sulla genetica e sull’alimentazione.

Molto si è già ottenuto nella riduzione dei gas climalteranti lavorando sull’efficienza degli allevamenti e sulla produttività dei singoli animali. Il risultato è riassunto in una regoletta matematica: meno animali per maggiore produzione uguale a minore impatto ambientale. C’è poi da aggiungere il ruolo che hanno prati e pascoli e colture foraggere nel sequestrare carbonio dell’atmosfera per “ingabbiarlo” nel terreno. Terreno che viene reso fertile dal letame degli stessi bovini che poi si alimentano su quei prati o che ne utilizzano i foraggi, in un naturale ciclo di economia circolare. C’è chi ha fatto le somme (3) di questo percorso virtuoso e ha scoperto come sia maggiore la quantità di CO2 equivalente che viene sequestrata rispetto a quella emessa. Come per le proteine, anche in questo caso il bovino è un “contributore netto” per il miglioramento ambientale.

Per tornare alla “fame di proteine” che attende il nostro Pianeta, il bovino ci offre la soluzione più convincente per mettere in equilibrio domanda di carne e impatto ambientale. Equilibrio che si ritrova sul piano sociale quando si pensi al ruolo che il bovino può interpretare nei paesi in fase di crescita. Il punto di forza del bovino sta nell’assenza di competizione alimentare con l’uomo e nella grande capacità di adattamento all’ambiente. Non a caso i bovini vantano un ampio ventaglio di razze, segno di grande biodiversità, maggiore di quella di altre specie di interesse zootecnico. A tutto ciò si aggiunge l’eliminazione degli sprechi, grazie alla possibilità di valorizzare residui di altre lavorazioni alimentari. Si calcola che oggi quasi il 70% della produzione mondiale di carne sia soddisfatta da suini e avicoli e circa il 20% dai bovini. Un rapporto che domani, in un mondo più popolato, sarebbe forse opportuno riequilibrare. Molti ne trarrebbero beneficio, ambiente compreso.

1. United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division (2019). World Population Prospects 2019, Volume I: Comprehensive Tables (ST/ESA/SER.A/426).
2. Mottet, A., Teillard, F., Boettcher, P., De’Besi, G., & Besbes, B. (2018). Domestic herbivores and food security: current contribution, trends and challenges for a sustainable development. Animal, 12(s2), s188-s198.
3. De Vivo, R., & Zicarelli, L. (2021). Influence of carbon fixation on the mitigation of greenhouse gas emissions from livestock activities in Italy and the achievement of carbon neutrality. Translational Animal Science, 5(3), txab042.
A cura di
Angelo Gamberini
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Se una stalla chiude
Sostenibilità
25/02/2022
3 min.
Sostenibilità

Allevare bovini non è facile. Richiede conoscenze che vanno dalla biologia all’informatica (tante le tecnologie digitali presenti in stalla). Poi forti investimenti che a loro volta comportano capacità manageriali non comuni e buona preparazione in campo economico. Competenze indispensabili per affrontare un mercato sempre più complesso e in rapido e costante divenire, che rende desueto in breve tempo ciò che prima era economicamente sostenibile. Accade ovunque e a ogni latitudine, ma nelle aree più difficili, come quelle di collina e montagna tutto ciò si complica a dismisura, amplificato da un clima più rigido, da infrastrutture carenti, dalla minore disponibilità di reti di comunicazione.

Accade così che mantenere una stalla di bovini possa trasformarsi in un’attività antieconomica, destinata alla chiusura. Un evento frequente, purtroppo. E quando una stalla chiude non si perde solo un’opportunità economica e sociale, ma sparisce una presenza che assicura il presidio e la cura del territorio, una fonte di alimenti tipici di un determinato ambiente, frutto di una preziosa e irripetibile cultura alimentare. Al contempo si impoverisce un’area agricola, privandola della sostanza organica prodotta dagli animali, indispensabile alla fertilità dei terreni. Danni che si aggiungono all’inevitabile perdita di biodiversità.

Quanto sia frequente la chiusura di un’azienda zootecnica lo evidenziano alcuni numeri sulla consistenza del patrimonio bovino in Italia. Nel 1990 il quarto censimento agricolo Istat conteggiava la presenza di 318.207 allevamenti di bovini. A distanza di trenta anni le rilevazioni dell’Anagrafe Nazionale Zootecnica ci dicono che il loro numero si è ridotto a poco più di 135mila. A gettare la spugna sono state in prevalenza le stalle di dimensioni più piccole e quelle presenti in aree marginali.

L’abbandono degli allevamenti ha coinciso con un’altra trasformazione, all’apparenza positiva. Sono aumentate le aree boschive, che ora contano 11 milioni ettari, con un incremento negli ultimi dieci anni di 587mila ettari, così affermano i numeri diffusi dall’Inventario nazionale delle foreste. In parte è il risultato dell’abbandono dei pascoli, sostituiti dai boschi, ma oggi privi della cura un tempo affidata agli stessi allevatori che quelle zone hanno dovuto lasciare. Così abbiamo più boschi, ma più degradati e più facile preda di incendi (nel 2021 hanno distrutto 160mila ettari), abbiamo più praterie, ma senza controllo, incapaci di trattenere acqua ed evitare frane e smottamenti.

Nemmeno ci si può consolare ricordando che l’aumento delle aree boschive coincide con una maggiore tutela ambientale. Certo, il bosco contribuisce al sequestro di carbonio, utile dunque al contrasto ai cambiamenti climatici. Ma forse non tutti sanno che anche il bovino è in grado di garantire un contributo netto al sequestro di carbonio. In altre parole, è più quello sequestrato dalle attività zootecniche e di coltivazione rispetto a quello emesso (De Vivo, Zicarelli – 2021). Per di più la presenza di un allevamento assicura il presidio del territorio, evita lo spopolamento di colline e montagne e garantisce il recupero di valori sociali oltre che economici.

Alla zootecnia di montagna e collina, o comunque nelle aree “difficili”, andrebbe garantito un percorso “agevolato”, sostenendone la presenza con incentivi di carattere economico e soprattutto rimuovendo immotivati orpelli burocratici. Magari privilegiando le imprese guidate da giovani, oggi più di ieri attenti a un’agricoltura in sintonia con l’ambiente. Sostenibile, come oggi si dice. Cosa che un allevamento di bovini è in grado di garantire.

A cura di
Angelo Gamberini