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Emissioni di gas serra del sistema agroalimentare: chi sono i veri responsabili?
Sostenibilità
10/01/2022
4 min.
Sostenibilità

La popolazione mondiale continua a crescere: dagli anni ’60 ad oggi si è più che duplicata passando da 3 miliardi circa di persone ad oltre 7,8 miliardi, e si stima che entro i prossimi 30 anni raggiungeremo la quota di 10 miliardi di abitanti. Questa crescita avrà indubbiamente delle conseguenze sulle future generazioni e rende necessari degli interventi immediati sulla gestione delle risorse e la produzione di cibo. Attualmente, infatti, siamo in grado di produrre in modo sostenibile cibo per appena 3,4 miliardi di persone (1) ma un cambiamento è possibile ed è fondamentale che i nostri sistemi di produzione diventino sempre più efficienti e sostenibili, per far fronte alla crescita mondiale e allo stesso tempo preservare la salute del pianeta.

Proprio in merito all’impatto ambientale della produzione alimentare, è recentissima la notizia che, secondo un nuovo studio condotto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), la fase di trasformazione alimentare potrebbe superare la fase agricola come maggior contributore alle emissioni di gas serra (GHG) del sistema agroalimentare in molti Paesi, a causa della rapida crescita dei processi di trasformazione alimentare, imballaggio, trasporto, vendita al dettaglio, consumo domestico e smaltimento dei rifiuti (2; 3).

Lo studio, che aveva come obiettivo quello di quantificare le emissioni di gas serra nel sistema agroalimentare al fine di allertare i principali responsabili e permettere adeguate misure di mitigazione, ha infatti evidenziato che sia in Europa che in Nord America le emissioni di gas serra dalle fasi di pre e post-produzione della filiera alimentare, fasi quindi non correlate all’attività agricola né ai cambiamenti nell’uso del suolo, rappresentano più della metà delle emissioni totali del sistema agroalimentare. In Paesi come l’Africa e il Sud America, invece, la quota di emissioni dalle fasi di trasformazione alimentare è ad oggi inferiore e pari al 14% ma risulta più che raddoppiata nel corso degli ultimi 30 anni (2; 3).

I dati utilizzati sono quelli del nuovo database FAOSTAT che raccoglie le emissioni di gas serra di 236 Paesi e territori nel periodo 1990-2019 ed è oggi accessibile a tutti sul relativo portale. Dall’analisi è emerso come, nel corso degli ultimi 30 anni, ci sia stato a livello mondiale un aumento del 17% delle emissioni totali di gas serra antropogeniche provenienti dai sistemi agroalimentari, che nel 2019 sono state pari a 16,5 miliardi di tonnellate, ovvero il 31% di tutte le emissioni correlate all’attività dell’uomo. Di questi 16,5 miliardi di tonnellate di emissioni di gas serra, 7,2 miliardi di tonnellate provenivano dall’interno delle aziende agricole, 3,5 dai cambiamenti di utilizzo del suolo (trasformazione delle foreste in terreni coltivati, ad esempio) e ben 5,8 miliardi di tonnellate dai processi di trasformazione alimentare (2; 3). Inoltre, è stato osservato che nel corso degli ultimi 30 anni le emissioni derivanti dai cambiamenti di utilizzo del suolo, pur rimanendo uno dei più importanti determinanti delle emissioni dei sistemi agroalimentari, sono in realtà diminuite del 25%, mentre le emissioni provenienti dalle aziende agricole sono aumentate solo del 9%. A guidare effettivamente l’aumento delle emissioni complessive di gas serra del sistema agroalimentare è quindi la fase di trasformazione alimentare: le emissioni generate al di fuori dei terreni agricoli, nei processi di pre- e post-produzione lungo le filiere alimentari, hanno un peso sempre maggiore in termini di impatto ambientale (2; 3). Come affermato dal Dottor Tubiello, primo autore dello studio, statistico senior della FAO “ciò ha importanti ripercussioni per le strategie nazionali di mitigazione relative alla produzione alimentare, considerando che fino a poco tempo fa queste si sono concentrate principalmente sulla riduzione di gas diversi dalla CO2 (“non-CO2”) all’interno dell’azienda agricola e sulla CO2 derivante dai cambiamenti di utilizzo del suolo” (2).

 

Riferimenti

  1. Gerten, D., Heck, V., Jägermeyr, J., Bodirsky, B. L., Fetzer, I., Jalava, M., … & Schellnhuber, H. J. (2020). Feeding ten billion people is possible within four terrestrial planetary boundaries. Nature Sustainability, 3(3), 200-208.
  2. Food and Agriculture Organization of the United Nations (FAO). Supply chain joins deforestation and farming practices as main source of emissions in agri-food sector. https://www.fao.org/newsroom/detail/supply-chain-is-growing-source-of-agri-food-GHG-emissions/en.
  3. Tubiello, F. N., Karl, K., Flammini, A., Gütschow, J., Obli-Layrea, G., Conchedda, G., … & Torero, M. (2021). Pre-and post-production processes along supply chains increasingly dominate GHG emissions from agri-food systems globally and in most countries. Earth System Science Data Discussions, 1-24.
A cura di
Giuseppe Pulina
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Clessidra ambientale: un approccio che rivaluta l’impatto ambientale (anche) della carne rossa
Nutrizione
01/12/2021
2 min.
Nutrizione

A fronte della crescente preoccupazione globale sull’impatto ambientale che genera il consumo di carne, il modello della clessidra ambientale mostra invece come, normalizzando i valori di emissioni in base alle “raccomandazioni nutrizionali europee”, l’impatto generato dal consumo settimanale di carne rispetto a quello di frutta e verdura è pressoché equivalente.

Esattamente, che cos’è questo modello e come si struttura?

È un approccio che nasce dall’esigenza di considerare gli alimenti prima di tutto come fonte di nutrienti, relazionando in maniera puntuale l’effettivo impatto ambientale che possono avere secondo il consumo in un determinato arco temporale. L’impatto ambientale, infatti, non viene calcolato esclusivamente per chilogrammo di prodotto ma quest’ultimo, viene successivamente ripartito in base alla frequenza settimanale di consumo raccomandata per ogni categoria di alimento. Ovvero partendo dalla base, andando verso l’alto, sono presenti le categorie alimentari la cui assunzione viene raccomandata con elevata frequenza (frutta, ortaggi, cereali) sino a quelle per cui non è consigliato superare 1-3 assunzioni settimanali, come per carne, pesce, ecc.

Come gli altri approcci che calcolano l’impatto generato dalle attività umane sull’ambiente, anche la clessidra si rifà al più noto sistema di valutazione degli impatti, il Life Cycle Assesment (LCA), che considera tra i parametri di riferimento la Carbon Footprint, ovvero l’impatto in termini di emissioni di gas a effetto serra.

Osservando la clessidra, è possibile notare come l’impatto settimanale generato dalla categoria che include carne, pesce, uova e legumi sia pressappoco confrontabile a quello della categoria 5, comprendente frutta e verdura, in termini di emissioni settimanali di gas serra.

 

 

Questo modello sembra superare il paradigma che associa gli impatti ambientali esclusivamente agli alimenti considerando invece come prioritario un approccio basato sia sul rispetto delle condizioni ambientali, sia su quello di una sana alimentazione, fondamentale per parlare di sostenibilità che, secondo la sua definizione “ufficiale”, deve essere intesa in triplice accezione: ambientale, sociale ed economica. Questo approccio consente dunque di portare a pari livello ambiente e nutrizione, traducendo le raccomandazioni dietetiche che promuovono la salute e il rispetto del contesto socioculturale ed enogastronomico in logiche ecocompatibili al fine di educare la popolazione al mantenimento della salute personale, collettiva e ambientale.

A cura di
Nutrimi
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Alimenti ultra-processati e salute: cosa dice la scienza
Nutrizione
16/11/2021
3 min.
Nutrizione

Negli ultimi anni, si sente sempre più spesso parlare dell’importanza di limitare il consumo di alimenti ultra-processati per ridurre i rischi per la salute. Di cosa si tratta?

La definizione di alimenti ultra-processati è stata coniata dal Professor Carlos Monteiro dell’Università di San Paolo, in Brasile. Monteiro ha infatti sviluppato un sistema di classificazione degli alimenti, NOVA appunto, sulla base del loro grado di trasformazione e quindi dei processi fisici, chimici e biologici che questi subiscono una volta separati dalla loro forma in “natura”, prima che siano consumati o utilizzati per la preparazione dei piatti (1).

Secondo la classificazione NOVA gli alimenti si possono suddividere in 4 gruppi (1):

Gruppo 1 – Alimenti non processati o minimamente processati

Comprende alimenti non trasformati o minimamente trasformati. Gli alimenti non trasformati (o naturali) sono parti commestibili di piante (semi, frutti, foglie, radici) o di animali (muscoli, frattaglie, uova, latte), e anche funghi, alghe e acqua, dopo la separazione dalla natura. Gli alimenti minimamente lavorati sono alimenti freschi naturali sottoposti a processi minimi di lavorazione, quali rimozione di parti non commestibili, essiccazione, macinazione, filtrazione, tostatura, bollitura, pastorizzazione, refrigerazione, congelamento, confezionamento in sottovuoto o fermentazione non alcolica.

Gruppo 2 – Ingredienti culinari processati

Comprende gli ingredienti culinari utilizzati per condire gli alimenti del primo gruppo come zucchero, miele, sale, oli vegetali, burro e brodi ma anche additivi utilizzati per preservare le proprietà originali del prodotto. I prodotti del gruppo 2 sono consumati raramente in assenza di alimenti del primo gruppo. Esempi sono il sale estratto dall’acqua di mare; zucchero e melassa ottenuti dalla canna o dalla barbabietola; miele estratto dai favi e sciroppo d’acero; oli vegetali schiacciati da olive o semi; burro e strutto ottenuti da latte e carne di suino; e amidi estratti da mais e altre piante.

Gruppo 3 – Alimenti processati

Comprende quegli alimenti relativamente semplici realizzati con due o tre ingredienti dei gruppi 1 e 2 e che hanno subito lavorazioni come la cottura, la conservazione e la fermentazione. Si tratta, ad esempio, di verdure e legumi in scatola, carni lavorate, pane, pasta, vino e birra. Questi alimenti possono contenere additivi utilizzati per preservare le loro proprietà originali o per resistere alla contaminazione microbica.

Gruppo 4 – Alimenti ultra-processati

Comprende alimenti e bevande industriali realizzati solitamente con 5 o più ingredienti, inclusi eventuali additivi aggiunti per esaltare i sapori o mascherare qualità sensoriali non desiderate nel prodotto finale. Solitamente, gli alimenti del gruppo 1 sono una piccola percentuale o sono addirittura assenti all’interno dei prodotti ultra-processati.

Relativamente a quest’ultima categoria di alimenti, quella degli ultra-processati appunto, l’esistenza di un’associazione tra il loro consumo e una maggiore mortalità, obesità e rischio di malattie croniche non trasmissibili sembra ormai chiara, come evidenziato da una recente revisione sistematica di 20 studi in cui è stata analizzata l’associazione tra alimenti ultra-processati e rischi per la salute (2).

Che un elevato consumo di alimenti ultra-processati si associ a un maggior rischio di mortalità per diverse cause è emerso anche da uno studio tutto italiano realizzato dai ricercatori dell’Istituto Neuromed di Pozzilli (IS), dell’Università dell’Insubria di Varese, dell’Università di Firenze e del Mediterranea Cardiocentro di Napoli (3). Lo studio infatti ha mostrato su un gruppo di oltre 22.000 soggetti adulti che un consumo elevato di alimenti ultra-processati (>14,6% degli alimenti totali) si associa a un rischio aumentato del 26% di mortalità per tutte le cause, del 58% di mortalità per malattie cardiovascolari e del 52% di mortalità per malattie cerebro-cardiovascolari, rispetto a un consumo basso (<6,6% del totale) (3).

Sebbene i motivi di questa associazione non siano ad oggi del tutto chiari si può ipotizzare che tra le cause vi sia l’elevata quantità di zuccheri e grassi saturi che gli alimenti ultra-processati spesso apportano, ma anche la serie di modificazioni strutturali e nella composizione in nutrienti a cui sono soggetti durante il processo di lavorazione industriale (3).

In una dieta sana ed equilibrata il consumo di alimenti ultra-processati dovrebbe essere quindi limitato il più possibile a favore di alimenti freschi, minimamente trasformati e a partire da materie prime di elevata qualità.

 


1. Monteiro, C. A., Cannon, G., Levy, R., Moubarac, J. C., Jaime, P., Martins, A. P., ... & Parra, D. (2016). NOVA. The star shines bright. World Nutrition, 7(1-3), 28-38.
2. Chen, X., Zhang, Z., Yang, H., Qiu, P., Wang, H., Wang, F., ... & Nie, J. (2020). Consumption of ultra-processed foods and health outcomes: a systematic review of epidemiological studies. Nutrition journal, 19(1), 1-10.
3. Bonaccio, M., Di Castelnuovo, A., Costanzo, S., De Curtis, A., Persichillo, M., Sofi, F., ... & Iacoviello, L. (2021). Ultra-processed food consumption is associated with increased risk of all- cause and cardiovascular mortality in the Moli-sani Study. The American journal of clinical nutrition, 113(2), 446-455.
A cura di
Nutrimi
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Un bovino aiuterà il mondo
Sostenibilità
17/09/2021
4 min.
Sostenibilità

È un tema che tende a sfuggire dai riflettori dell’informazione, quasi lo si volesse esorcizzare non parlandone. Ma non per questo fame e malnutrizione hanno smesso di mietere vittime. I rapporti annuali della Fao e di Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) dicono che il numero di persone sottoalimentate e malnutrite è persino in aumento.

Le cifre sono impressionanti. Circa 2 miliardi di persone costrette a vivere con gravi livelli di insicurezza alimentare. Un numero destinato ad aumentare se si tiene conto della crescita demografica. Crescita che si registra con maggiore intensità nei paesi meno sviluppati e dove la fame è più presente. Un fenomeno che si espande con maggiore velocità in Africa.

Che fare? Soluzioni semplici non ne esistono, ma proposte concrete arrivano da chi questi problemi li affronta sul campo, come Cefa, organizzazione che da decenni si occupa di fame e povertà. Sua l’idea, vincente, di ricorrere all’allevamento di bovini per aiutare uno dei distretti più poveri della Tanzania.

Dove si è intervenuti ora esistono le risorse per un autonomo sviluppo economico, sociale e culturale. Un progetto poi replicato più recentemente in Mozambico, uno tra i paesi più poveri del mondo.

Perché puntare sui bovini? Ricordo un’illuminante lettura del libro inchiesta di Martin Caparros dal titolo emblematico: La Fame. Colpisce il suo incontro in Niger con Aisha, una giovane donna intenta a preparare un frugale pasto di frittelle a base di farina di miglio.

Se un mago potesse esaudire ogni tuo desiderio, chiede Caparros ad Aisha, cosa gli chiederesti? “Voglio una vacca che mi dia molto latte” risponde Aisha. “Se vendo il latte in più posso comprare quello che serve per fare più “frittelle”. Ma il mago, replica Caparros, può darti qualunque cosa, tutto quello che vuoi. In un sussurro, risponde Aisha, “Due vacche, così non avrò fame mai più.”

Nella semplicità della risposte di Aisha si coglie la saggezza di chi intuisce la simbiosi che si instaura fra uomo e bovino. Perfetto erbivoro, il bovino si alimenta utilizzando essenze vegetali che per l’uomo non hanno alcun valore nutritivo. Grazie alla conformazione e alla fisiologia del suo apparato digerente, il bovino trasforma questi vegetali in carne e latte, offrendo all’uomo alimenti ricchi e completi. Proteine nobili, con una perfetta dotazione aminoacidica nella carne, preziosa anche per il suo contenuto in vitamine, quelle del gruppo B in particolare, scarsamente rappresentate nel mondo vegetale. Poi minerali come lo zinco, il ferro e il selenio, non meno importanti per la salute.

Nella razione dei bovini si possono escludere le materie prime utilizzabili direttamente dall’uomo. Un prato polifita ricco di essenze foraggere, come si può trovare in ogni area che non sia desertica, può bastare. E in molti casi sarà possibile migliorare questi pascoli con altre essenze vegetali. Graminacee, ma in particolare alcune leguminose, come l’erba medica o la sulla, capaci di catturare l’azoto atmosferico e trasferirlo anche nel terreno. Che risulterà più fertile.

A proposito di fertilità dei terreni, non va dimenticato che il letame dei bovini è uno dei più efficaci fertilizzanti. Dopo la “maturazione”, dove il cumulo si riscalda a tal punto da igienizzare l’intera massa, la miscela di residui vegetali e deiezioni animali si trasforma in un toccasana per i terreni. Non solo apportando nutrienti come azoto, fosforo e potassio, ma migliorando la struttura stessa del terreno, arricchendolo in humus. Un mirabile esempio di economia circolare che ha nel bovino una della sue migliori espressioni.

Se il letame bovino alle nostre latitudini è un modo per ridurre l’impiego dei concimi chimici, nelle aree in via di sviluppo è lo strumento per migliorare le produzioni foraggere e ottenere così più latte e più vitelli, ovvero più carne.

Basta allora “regalare” un bovino per risolvere la fame? Certo che no. Ma questo “regalo”, accompagnato da qualche rudimento di buone pratiche di allevamento, compatibili con l’ambiente al quale si riferiscono, può dare un aiuto concreto. Le esperienze già realizzate sono lì a dimostrarlo.

A cura di
Angelo Gamberini
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Cosa significa ‘dieta sostenibile’? Guida pratica per costruire piatti bilanciati e ‘green’.
Nutrizione
20/06/2021
3 min.
Nutrizione

Quando si parla di alimenti e sostenibilità, spesso ci si limita a osservare il minore o maggior impatto di alcune categorie di alimenti rispetto ad altre (emblematico è il caso della carne) senza considerare la dieta nel suo complesso. Questo approccio rischia di far escludere alcuni alimenti (in quanto etichettati come ‘dannosi per l’ambiente’) che, viceversa, se consumati nelle giuste quantità possono avere un ruolo virtuoso in una dieta bilanciata e sostenibile. Tra i tanti errori diffusi al riguardo vi è quello di confrontare l’impatto ambientale di un kg di carne con quello di un kg di frutta e verdura, perché il contenuto dei nutrienti è completamente diverso, così come le quantità di consumo raccomandate, più basse per la carne e molto più alte per i vegetali (1).

Parlando di diete sostenibili non si può non menzionare la Dieta Mediterranea, un modello caratterizzato da una prevalenza di prodotti vegetali, ma che non esclude delle quote di prodotti animali necessarie, senza eccedere, a coprire le inevitabili carenze di un modello completamente vegetale (1). A tal proposito è stata recentemente pubblicata una nuova piramide della Dieta Mediterranea che coniuga gli aspetti nutrizionali del famoso modello alimentare con aspetti di sostenibilità alimentare (2).

Come risultato di un lungo lavoro di revisione e “rimodellamento” della precedente piramide pubblicata nel 2011, la nuova piramide mira ad includere i più recenti risultati relativi all’impatto ambientale del modello mediterraneo. La Dieta Mediterranea, infatti, favorirebbe emissioni di gas serra “controllate”, garantendo il rispetto della stagionalità dei prodotti, del territorio e della biodiversità (2).

Tra le novità della “nuova piramide sostenibile” vi è infatti la presenza, in ciascun livello, di una terza dimensione che rappresenta gli aspetti ambientali e l’impatto specifico di ciascuna categoria di alimenti.

Chi sono i ‘meno sostenibili’? Prodotti industriali, merendine e dolci ricchi in zuccheri e grassi sono quei prodotti presenti al vertice della piramide il cui consumo deve essere limitato a un massimo di 3 volte alla settimana, sia per gli effetti sulla salute sia per il loro impatto sull’ambiente (2). Per gli italiani, quindi, forse sarebbe da rimettere in discussione il modello di colazione ‘dolce’ in modo da limitare il consumo di prodotti di forno, a favore di pane integrale e cereali poco processati come i fiocchi d’avena, ad esempio, in abbinamento a un’adeguata porzione di latte o yogurt. Di certo, quindi, ben più sostenibile era la colazione dei nostri nonni, a base ad esempio di caffellatte e pane raffermo.

Per quanto riguarda il consumo di verdura, frutta fresca e secca, si enfatizza la necessità di scegliere prodotti locali (2): dimentichiamoci quindi della frutta esotica come categoria ‘healthy’ per eccellenza nelle diete più in voga, soprattutto nei contesti urbani, pensando ad esempio agli ultimi anni in cui zenzero, avocado e gli altri cosiddetti ‘superfood’ hanno letteralmente spopolato. Basandoci sulle frequenze di consumo e sugli alimenti consigliati sulla base di questo approccio, largamente condiviso a livello di comunità scientifica e che privilegia il consumo di prodotti freschi, locali e stagionali, proviamo a ipotizzare per la stagione estiva alcuni piatti virtuosi dal punto di vista delle raccomandazioni nutrizionali e… ambientali.

A cura di
Nutrimi
Straccetti di carne marinati con rucola e pomodorini, accompagnati da riso integrale
Ingredienti: 100 g di straccetti di manzo, 50 g di rucola, 100 g di pomodorini
Il commento 'green' del nutrizionista: anche la carne può far parte di una dieta green se consumata in modo equilibrato per quantità e frequenza durante la settimana.
Panzanella
Ingredienti: 100 g di pane raffermo, 70 g di pomodori, 70 g di cetrioli, 30 g di cipolle, aceto 20 g, olio q.b., acqua q.b. basilico q.b.
Il commento 'green' del nutrizionista: la panzanella è un piatto della tradizione che permette il riutilizzo di pane “invecchiato”, riducendo gli sprechi alimentari.
Riso integrale con fave, pecorino e menta
Ingredienti: Ingredienti: 80 g di riso integrale, 150 g di fave fresche, un cucchiaino di pecorino, menta q.b.
Il commento 'green' del nutrizionista: le fave sono un legume tipico della stagione primaverile/estiva. Curiosità: aggiungere un po’ di succo di limone può favorire l’assorbimento del ferro vegetale.
Insalatona di patate, fagiolini, acciughe e olive, accompagnata da un piccolo panino integrale
Ingredienti: 200 g di patate, 200 g di fagiolini, 4 (50 g) acciughe, 8 olive, olio evo
Il commento 'green' del nutrizionista: durante la settimana è consigliato preferire il consumo di pesce fresco azzurro tipico del Mar Mediterraneo, come acciughe e sardine, e consumare quello conservato non più di una volta alla settimana.

Ricapitoliamo quindi qualche trucco e consiglio per orientarci verso un’alimentazione il più possibile ‘green’, oltre che bilanciata:

– Buon senso prima di tutto

Torniamo a scoprire le stagioni, con il loro patrimonio di prodotti, privilegiando sempre quelli del nostro territorio: più vicino, meglio è. In buona sostanza, proviamo a riavvicinarci a quella che era l’alimentazione… dei nostri nonni (3).

– Prepariamo il cibo con le nostre mani (o scegliamolo con la testa)

Cucinare è un’arte, e richiede tempo. Per la maggior parte di noi potrebbe risultare veramente complesso, se non impossibile, preparare ogni giorno ricette salutari a partire da prodotti freschi. Cerchiamo quindi di scegliere consapevolmente anche i piatti che acquistiamo già pronti, al supermercato o al ristorante.

– Scelte radicali? Meglio la moderazione

Quando parliamo di alimenti e sostenibilità vengono subito in mente le diete vegetariane e vegane, in quanto ritenute associate ad un minor impatto ambientale rispetto alle diete onnivore. Non dimentichiamo però che in queste diete, prive in parte o del tutto di prodotti di origine animale, c’è un alto rischio di ricorrere a prodotti sostitutivi di origine vegetale che spesso sono alimenti ultra-processati, con un impatto ambientale elevato. Ad oggi, sulla base dei dati esistenti, preferiamo considerare come modello alimentare di riferimento, sano e sostenibile, la Dieta Mediterranea con il giusto quantitativo di tutti gli alimenti e dando largo spazio a quelli freschi, di stagione e locali.

1. Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (2019). Linee guida per una sana alimentazione 2018
2. Serra-Majem, L., Tomaino, L., Dernini, S., Berry, E. M., Lairon, D., Ngo de la Cruz, J., … & Piscopo, S. (2020). Updating the Mediterranean Diet Pyramid towards Sustainability: Focus on Environmental Con-cerns. International Journal of Environmental Research and Public Health, 17(23), 8758.
3. XIII Forum di Nutrizione Pratica. Verso sistemi alimentari sostenibili: ripartendo dalla tradizione.
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Bovini, water footprint ed emissioni di CO2: quale l’impatto reale?
Sostenibilità
20/06/2021
6 min.
Sostenibilità

È necessario eliminare la carne dalla propria alimentazione per salvare il pianeta. Gli allevamenti sono i principali responsabili della produzione di metano e quindi dell’inquinamento ambientale. Nulla come gli allevamenti erode risorse naturali e sottrae spazio alle coltivazioni. Le coltivazioni sono di gran lunga più sostenibile dell’allevamento.

Tutte queste frasi altro non sono che luoghi comuni, radicatisi anno dopo anno nella “cultura generale” e che contribuiscono ad alimentare una serie di fake news dannose per i consumatori.

All’origine dell’equivoco

È il 2006 e la FAO pubblica il rapporto “Livestock’s Long Shadow” che per primo porta alla luce il legame tra allevamenti e cambiamento climatico. L’impatto dello studio è enorme: l’opinione pubblica si allarma, associazioni ambientaliste e comunicatori iniziano a connotare negativamente la produzione e il consumo di carne fino ad arrivare a incolpare i bovini per i problemi ambientali perché, stando alla ricerca della FAO, inciderebbero più dei trasporti sul cambiamento climatico e sarebbero responsabili del 18% delle emissioni mondiali di CO2 equivalente.

Le cifre sono così fuori scala che la comunità scientifica si mobilita, rifà i conti e contesta il report mettendone in discussione gli assunti. Fra gli scienziati più attivi si conta Frank Mitloehner, professore della Università della California UC Davis, che ha contestato il primo rapporto evidenziando come la metodologia applicata nel calcolo degli impatti dell’allevamento fosse diversa rispetto al calcolo delle emissioni dei trasporti. Osservazione accolta anche da Pierre Gerber, uno dei ricercatori che lavorarono al rapporto stesso. L’errore? Per gli animali in allevamento sono state calcolate le emissioni di tutto il ciclo produttivo della carne, il cosiddetto Life Cycle Assessment, con uno specifico modello denominato Global Livestock Environmental Assessment Model (GLEAM). In altre parole, hanno sommato le emissioni a partire dalla coltivazione dei cereali per i mangimi, trasformazione e conservazione della carne e il packaging. Per i trasporti, invece, sono state considerate solo le emissioni dei gas di scarico dei mezzi mentre non sono stati calcolati tutti gli impatti derivanti dall’industria automobilistica, navale e aeroportuale necessari alla costruzione dei mezzi stessi (gomma, acciaio, plastica, vetro, estrazione petrolio, ecc.). Questo ha reso il confronto non omogeneo e sbilanciato e soprattutto poco obiettivo, producendo un dato fuorviante e non veritiero. Dopo 7 anni la FAO rilascia un secondo rapporto che ridimensiona gli impatti di tutta la zootecnia mondiale, fissandoli al 14,5% delle emissioni.

Oggi cosa dicono i dati?

Nel 2013 la FAO ha aggiornato lo studio, rivedendo gli impatti mondiali della filiera zootecnica con la pubblicazione del rapporto “Tackling Climate Change through Livestock”, eliminando il confronto con i mezzi di trasporto, ma tenedo sempre l’uso del suolo e il suo cambiamento (aspetto particolarmente critico quando si parla di emissioni per la difficoltà di eseguire calcoli accurati). Il dato relativo alle emissioni dell’allevamento, come detto, è passato dal 18% al 14,5% (media mondiale di tutte le produzioni zootecniche, bovino, pollo, suino, uova e latte, calcolate con il metodo GLEAM). La restante percentuale, che si attesta attorno all’ 80%, è invece imputabile all’utilizzo dei combustibili fossili quali petrolio, carbone e gas impiegata come energia nei trasporti, nell’industria e nel settore residenziale, mentre un 5% è imputato alla produzione di cemento. Anche basando il confronto solo sulle emissioni dirette il rapporto non cambia: gli animali sono responsabili del 5% delle emissioni, mentre i trasporti del 14%.

Le emissioni non sono tutte uguali

A questo punto però qualcuno potrebbe obiettare che sebbene gli allevamenti inquinino decisamente meno rispetto a quello che i più pensano, tuttavia rimangono parte di un sistema inquinante… giusto? Per rispondere è necessario un rapido ripasso delle nostre conoscenze scientifiche di base. Il metano, considerato il principale gas climalterante degli allevamenti, emesso dai bovini e da altri ruminanti (ma anche i cavalli emettono metano e in quantità ridotta, anche l’uomo) fa parte di un ciclo naturale, cosiddetto biogenico, che è molto diverso dall’anidride carbonica immessa in atmosfera dai mezzi di trasporto o dall’industria. Il ciclo inizia dalla crescita dell’erba e dei foraggi utili per alimentare il bovino. Attraverso la fotosintesi, le piante catturano l’anidride carbonica (CO2) dall’aria, producono carboidrati (CHO) e rilasciano ossigeno (O2) in atmosfera. I carboidrati contenente la parte di carbonio naturalmente presente nella pianta (C) sono poi ingeriti dai bovini e lo stesso carbonio, durante la digestione microbica che avviene nel rumine dell’animale, è trasformato in metano (CH4) poi rilasciato nell’aria dagli animali. A differenza delle emissioni derivate dai combustibili fossili e dalla fabbricazione del cemento che negli anni si sono accumulate in atmosfera e vi permarranno per circa mille anni, il metano prodotto dagli allevamenti è riassorbito in tempi rapidi dalle piante e rientra nel ciclo vitale. Infatti, dopo circa dieci anni, il metano atmosferico (CH4) è scomposto in acqua (H2O) e anidride carbonica (CO2): quest’ultima molecola verrà riassorbita proprio dalle piante, le stesse che diventeranno nutrimento per i bovini, per riattivare il ciclo. In sintesi, il carbonio fossile è un carbonio morto che si accumula in atmosfera, quello del metano emesso dai bovini è un carbonio vivo che rientra nel ciclo della vita e non si accumula.

Elaborazione grafica da “Global Dairy Platform 2020”

A proposito di Water Footprint

Tra le critiche rivolte alle filiere zootecniche c’è quella che vede gli allevamenti come sistemi che erodono le risorse idriche del pianeta poiché per produrre 1 kg di carne sarebbero necessari 15.400 litri di acqua. Anche in questo caso, è necessario fare chiarezza. Per prima cosa, è importante precisare che questo impatto è calcolato sommando la cosiddetta “acqua verde” con l’“acqua blu” e l’“acqua grigia”. L’acqua verde è quella piovana, che consente la crescita della vegetazione che nutre le mandrie, e di cui l’uomo non può servirsi. L’acqua blu, invece, è l’acqua prelevata dalla falda o dai corpi idrici superficiali, come fiumi e ruscelli. Infine l’acqua grigia rappresenta il volume d’acqua necessario a diluire e depurare gli scarichi idrici di produzione. La stragrande maggioranza dell’acqua imputata alle produzioni animali è quella che piove sui vegetali , la cosiddetta acqua verde, che rappresenta il 94% dell’acqua imputata alle filiere bovine. Tutta quest’acqua non è realmente consumata perché evapotraspira nell’atmosfera e ritorna nel ciclo naturale con le precipitazioni. La percentuale di acqua blu “sottratta” alle riserve destinate all’uomo è quindi minima e rappresenta appena il 3% del totale, così come l’acqua grigia che, nel peggiore dei casi (mancanza di depurazione, uso sconsiderato delle deiezioni, sovraconcimazione, uso eccessivo di fitofarmaci) rappresenta appena il 3%. Pertanto, il modo corretto per calcolare l’impronta idrica è quello di considerare l’acqua verde al netto della evapotraspirazione di una vegetazione naturale, ottenendo così l’”acqua verde netta” e, conseguentemente, la water footprint netta.

Elaborazione grafica da “La Sostenibilità delle carni e dei salumi in Italia” edito da FrancoAngeli, 2018

Quali sono gli impatti dell’allevamento bovino in Italia?

In Italia l’allevamento bovino ha un impatto per emission di gas climalteranti pari al 3,7% del totale (rielaborazione su dati ISPRA 2021). In Italia, recenti pubblicazioni scientifiche hanno calcolato il Net Waterfootprint (WFPnet) (Atzori et al., 2016) che per produrre 1 kg di carne bovina risulta, nel caso più virtuoso, pari a 790 litri di acqua. Pertanto, possiamo affermare che per produrre 100 g di carne oggi in Italia si consumano solo 79 litri di acqua nell’ipotesi della migliore utilizzazione dell’oro blu.

A cura di
Giuseppe Pulina